Ras Tewelde, One-way ticket. Rasta home and abroad, recensione ed intervista.
Ha qualcosa di speciale questo ragazzone napoletano ma “etiope” di adozione.
Un nome italiano sostituito da quello ricevuto in battesimo in Etiopia, usato ormai come nome d’arte, che è soprattutto una dichiarazione di intento, musicale e politico-religioso, dove la differenza tra le due cose – come per Marley – in fondo non c’è.
Una qualità gioiosa e pulsante, un candore assoluto, che muove anche tenerezza, una fede rastafariana vera, che lo porta a scrivere pezzi “conscious” (= impegnati) su quella che con una forzatura possiamo definire la dottrina rasta: la teoria dell’Etiopia come culla degli africans (a prescindere dalla loro provenienza e del colore della loro pelle), l’idea della necessità di un loro “rimpatrio” nelle aree che l’imperatore Haile Selassie decise di donare ai giamaicani che volessero tornare a una terra originaria dove non essere sfruttati dal colonialismo anglosassone, ovvero la zona di Shashamane, dove da alcuni anni risiedono varie persone/famiglie di origine caraibica. Una weltanschauung che l’artista esprime a tuttotondo nel costruire con grande sforzo personale progetti culturali con l’Etiopia, soprattutto Youths of Shasha, dove ha coinvolto i bambini del luogo nella produzione musicale.
Ma al di là dei contenuti, il primo album di Ras Tewelde, One Way Ticket: Rasta at Home and Abroad uscito per Bizzarri Records, molto ben recensito anche all’estero, ha avuto un grandissimo consenso perché in effetti è un album godibile in ogni traccia. Un reggae tradizionale molto roots, con qualche citazione diretta di alcuni classici giamaicani, che si avvale di collaborazioni anche molto prestigiose come un duetto col compianto Sugar Minott, ed altri nomi importanti della scena reggae che hanno influenzato anche il sound di alcuni pezzi, tra cui anche veterani del dj style come Josie Wales, Stitchie e Louie Culture, e Lion D.
Tra i duetti più riusciti sotto il profilo canoro sottolineiamo “King and Queen” con Keera Roots, che ha una voce avvolgente. Probabilmente uno dei pezzi più significativi dell’album è comunque Democracy is Hypocrisy, un pezzo con una matrice più soul, ispirato al famoso discorso di Malcom X del 1964, che ascoltiamo nel take originale in apertura del brano: uno dei vari “singoli” di questo cd, da cui sono stati già realizzati ben cinque videoclip.
I pezzi sono scritti insieme a The Magista, che si occupa soprattutto della parte musicale, mentre i testi sono composti e cantati da Ras Tewelde, prevalentemente in Patwa giamaicano, un vernacolo che è una vera e propria lingua più che un semplice pidgin.
In effetti questa è davvero la prima cosa che vogliamo chiedergli:
Tu riesci sia a comporre che a cantare in Patwa, che non è proprio facile. È stata una scelta più “politica” o musicale, pensando anche al fatto che avresti duettato?
Direi una scelta ‘spirituale’ più che altro. Sai, per un Rastaman come me, il linguaggio riveste un ruolo fondamentale, soprattutto quando si parla di musica. Uno dei concetti su cui si basa la nostra filosofia è l’inscindibile legame che esiste tra Word (la parola), Sound (il suono) e Power (la potenza che risiede nell’associazione di parola e suono). Non è importante solamente cosa si comunica alle persone, quanto, e a volte soprattutto, come lo si comunica. Ecco perché il Patwa, grazie alla sua fortissima carica espressiva, è spesso in grado di trasmettere concetti profondi con l’uso di una sola parola, quando in italiano una frase intera non sarebbe sufficiente. Basti pensare all’impatto culturale che Bob Marley ha avuto in tutto il mondo, Italia in prima fila, e a quanto dei suoi testi la gente capisca o abbia mai capito…it is a Rastaman Vibration, you know? Ed il Patwa il suo veicolo…
Come hai fatto a coinvolgere così tanti artisti anche internazionali per un primo disco, senza avere già alle spalle un successo forte? È stato più grazie alla musica e ai testi, o la tua personalità?
Sai, un Rastaman trova una famiglia in ogni luogo della terra, fratelli e sorelle nella fede con cui condividere quella che noi chiamiamo ‘livity’, il nostro modo di vivere e di concepire la vita nelle piccole e grandi azioni di tutti i giorni. È questo che ha spinto la mia musica fino a dove è arrivata e continua ad andare: l’essere in un certo senso portatore di un messaggio, ambasciatore di un pensiero, per cui le aspirazioni e gli sforzi mirano ben più oltre individualità o obiettivi personali. È così che ho incontrato tutti loro. Certamente la musica, nei suoi aspetti pratici, rimane un business, ma gli incontri e le collaborazioni che hanno creato molte delle canzoni del mio album ‘One Way Ticket’ sono state vere esperienze di vita insieme a ‘fratelli maggiori’ direi, prima che grandi artisti.
Come componete i pezzi tu e The Magista?Parti tu dalla musica o lui dai tuoi testi?
Credo che uno degli aspetti più mistici del mio rapporto con la musica sia quella sensazione inspiegabile in base alla quale, in un preciso momento, sento di dover scrivere, e scrivere qualcosa che quasi mi viene dettato. Come se fossi stato scelto per fare qualcosa che, altrimenti, farebbe comunque qualcun altro. Le canzoni in questo senso sono come dei figli…li fanno madre e padre ma appartengono al mondo intero.
E quindi partire dal testo o dalla musica è assolutamente equivalente vedendo le cose in questo modo. Anzi, spesso è un mutuo influenzarsi e modificarsi proprio durante il momento unico della creazione artistica.
Sappiamo che hai tantissimi progetti per la crescita del tuo lavoro in senso più ampio e trasversale. Ci racconti qualcosa, soprattutto a proposito degli Youths of Shasha?
Tutto nasce e ruota intorno all’Etiopia: dal momento in cui ho incontrato Rastafari, quasi tutto ciò che faccio ha a che fare con questo incredibile e straordinario paese. La mia musica prima di tutto ne è una ossessiva testimonianza, ma non solo. Parallelamente alla vita di cantante e compositore, svolgo attività di ricerca accademica in Italia ed in Etiopia, dove conduco uno studio sulle nuove generazioni di Shashamane, luogo dove ha sede la più grande comunità Rastafariana del mondo.
È proprio in seguito alle mie lunghe permanenze a Shashamane che ho scoperto l’esistenza di moltissimi giovani talenti musicali che purtroppo, a causa della totale assenza di strutture e servizi a disposizione, non hanno alcun modo di potersi esprimere e coltivare le proprie capacità artistiche. In questo contesto si sviluppa il progetto ‘Youths of Shasha’ che mira alla costruzione di una scuola di musica per i giovani locali, con uno studio di registrazione che consenta loro, anche grazie alle nuove tecnologie, di essere connessi con il mondo della musica a livello globale.
A questo proposito, il progetto prevede anche la produzione di una compilation musicale alla quale partecipano, insieme ai giovani talenti locali, i più grandi cantanti della musica Reggae Giamaicani ed internazionali, ed un video-documentario su Shashamane e le incredibili storie di questi ragazzi. Che dire, tanti sogni concentrati in un unico progetto: seguitelo, supportatelo, ed amatelo…come la musica ama voi! www.youthsofshasha.org.