Rakim – The 18th Letter, recensione.
I cinque anni che hanno preceduto il 2000 sono molto sottovalutati dagli storici dell’Hip-Hop. “Colpevoli” di essere arrivati dopo i momenti d’oro della golden age e spesso ricordati come la culla della commercializzazione del genere, in realtà gli anni tra il 95 ed il 99 sono stati costellati dalla nascita di parecchi classici. Era l’epoca delle conferme di gruppi esplosi poco prima, come i Wu-Tang Clan o i Mobb Deep o ancora quella di esordi importanti come Big L, Capone-N-Noreaga e Dilated Peoples. Ma se la qualità media veniva garantita dalle nuove generazioni, al contrattacco dei suoni allegeriti c’erano anche dei veterani che si aggrappavano al loro stile originale mantenendo a galla la vera natura dell’Hip-Hop. Alcuni, messi a confronto con il loro glorioso passato, deludevano i fans. Altri facevano rivivere i tempi d’oro. Ma uno di loro ha una storia ben diversa.
Rakim veniva da un silenzio prolungato, infatti il suo ultimo album con lo storico dj-partner Eric B era datato 1992 e si chiamava Don’t Sweat The Technique. Da quanto la partnership si era interrotta, una delle domande più frequenti nel mondo dell’Hip-Hop riguardava proprio l’entità del proseguio della carriera di Rakim che, giova ricordarlo, è considerato alla quasi totale unanimità il miglior rapper di sempre. L’alone di mistero si sciolse finalmente nel 1997, quando uscì il primo album solista del rapper di Long Island. Un progetto di cui si parlò poco e che, rispetto alla lunga attesa che lo aveva preceduto, passò quasi in sordina. Tredici anni dopo, The 18th Letter merita di essere riascoltato con attenzione per essere messo definitivamente al fianco di quei classici che hanno illuminato la storia della musica.
Strutturato come “ai vecchi tempi”, cioè con 12 pezzi veri inclusi due remix, intervallati solo da tre brevi ma intense dichiarazioni di Rakim che sembrano estrapolate da un’intervista, The 18th Letter mette in primo piano la sostanza che in questo caso si traduce in liricismo tecnico e concreto, come sempre abile nell’affrontare temi di alto spessore con visioni filosofico-spirituali. Ma non c’è solo l’arte orale da apprezzare, visto che Rakim sembra consapevole del fatto che senza dei buoni produttori si fa poca strada. Allora il suono è affidato ai mostri sacri Premier e Pete Rock con l’aiuto di altri nomi affermati quali Clark Kent e Father Shaheed.
La title-track che apre l’album dovrebbe essere testo da studiare a scuola di metrica: tonnellate di rime interne ed esterne, concetti che uniscono l’Hip-Hop alla storia ed alla scienza tramite metafore colte, un’intensità dettata da un flusso vocale tranquillo e rilassato. Tre minuti per definire e capire perché siamo di fronte al miglior mc di sempre. E Rakim sembra volersi quasi giustificare per la lunga assenza dalle scene che avevano privato gli ascoltatori della sua arte con la successiva It’s Been A Long Time, classico banger di DJ Premier sul quale Rakim spiega le vicissutidini che hanno portato a farlo attendere cinque anni prima di tornare a fare un disco e ne approfitta per ringraziare i fans che lo reclamavano a gran voce. Inutile sottolineare che la combinazione Rakim-Premier è il paradiso per chi ama l’Hip-Hop e che difficilmente una simile coppia verrà pareggiata in futuro.
Si affaccia ancora il passato nella nostalgica Remember That, un viaggio nella carriera a partire dai concerti da sconosciuto fino ad arrivare ai giorni del mito rivivendo tutte le sfaccettatute della crescita dell’Hip-Hop trasportato dalla base piacevolmente souleggiante di DJ Clark Kent. A seguire il team-up con Pete Rock in The Saga Begins e When I’m Flowin’ che, come con Premier, fa pensare a cosa potrebbe essere stata una collaborazione prolungata tra questi due luminari del genere. Il solito mix di campionamenti funk e jazz di Pete Rock su una batteria decisa fanno da perfetto sottofondo alle intricate rime che sfociano nel ritornello fatto di scratch presi da vecchi pezzi di Rakim. Hip-Hop al suo più alto livello e c’è poco altro da dire. A movimentare il ritmo con una base energica e potenzialmente accattivante è Clark Kent che produce il primo singolo Guess Who’s Back nel quale sembra curarsi poco del sound quasi da party e di nuovo si esprime in versi complessi. E’ stato il pezzo che più ha fatto successo grazie alla base ma non era il più rappresentativo di un disco con ben altre perle. Come ad esempio New York, usuale capolavoro di Premier che permette a Rakim di fare un omaggio alla città dell’Hip-Hop in modo sontuoso, tra decine di scratch che citano la grande mela compresa quella iniziale di James Brown. Se qui Rakim è in grande forma, è indubbio che il lavoro di DJ Premier è da medaglia d’oro e innalza a livelli superiori un pezzo praticamente perfetto. The Mystery (Who Is God?) è il pezzo dell’album di cui Rakim andava più fiero e c’è da capirlo visto il suo testo di impressionante profondità. Si tratta di una tesi “scientifica e realistica” sul mistero dell’esistenza di Dio per la quale Rakim non fa un mero esercizio di scrittura difficile ma va a supportare i suoi versi con fatti presi da libri e scritture, mettendoci la sua visione spirituale e filosofica. Base volutamente non invasiva (seppur apprezzabile) proprio a voler evidenziare il peso delle parole. Una perla che pochi altri artisti (e non solo rappers) sarebbero capaci di comporre.
I pezzi Stay A While e Show Me Love sono due tentativi di abbinare le liriche di Rakim a basi tendenti all’R&B con tanto di odiosi coretti cantati che forse volevano essere dei modi con cui l’etichetta voleva far approdare questo album in classifica, invece riescono solo nell’intento di togliere il mood creato dalla classe superiore del protagonista e dai beats seri che fortunatamente hanno il sopravvento. Ma al di là di questo mezzo passo falso, The 18th Letter ha una qualità media che raramente si è incontrata nella storia dell’Hip-Hop ed era l’affermazione del fatto che il miglior mc di sempre era tornato in piena forma dopo il silenzio. E se i suoi album con Eric B sono certificati classici, questo non è da meno.