Radiohead – Ok Computer (1997)
In un ipotetico ballottaggio per scegliere il capolavoro discografico degli anni 90, qualsiasi album (Achtung Baby!, Automatic for the people, Nevermind e pochi altri), a mio avviso, si dovrebbe sempre confrontare con Ok Computer dei Radiohead. Questo disco infatti – uscito nel 1997 – è a suo modo rivoluzionario dal punto di vista del sound, ed ha rappresentato il trampolino di lancio definitivo nella ionosfera mainstream per una delle band inglesi più importanti degli ultimi decenni.
Per registrarlo Tom York e compagni si “seppellirono vivi” in uno studio di registrazione molto suggestivo – la casa di Jane Seymour – per ritrovare quell’isolamento di cui necessitavano per concentrarsi. Questa sorta di esilio forzato, autoimposto, alla fine diede i suoi frutti, considerando che dopo l’esordio con Pablo Honey (che sin da subito gli aprì le porte del mercato Americano) e il successivo The Bends, le aspettative erano alle stelle e per fare il salto di qualità dovevano uscire con del materiale artisticamente esplosivo.
Ed è sufficiente schiacciare play e lanciare le prime note dell’iniziale “Airbag” per capire che ci si trova coinvolti in qualcosa di molto più grande di una semplice “collezione di canzoni”, una sorta di vortice emotivo angosciante, e nel contempo sublime, dal quale sarà molto difficile volerne uscire prima del tempo. La melodia cattura, la voce del frontman è avvolgente e la musica rock, piena di riverberi ed effetti, non dà tregua. “Paranoid android” col suo incipit acustico e la sua apparente calma scopre ben presto la sua anima schizofrenica, che alterna grazia melodica ad un torrente elettrico che spiazzerebbe chiunque. Il testo, poi, parla della moda della cocaina e del caos che ne consegue.
La splendida e spaziale “Subterranean homesick blues”, richiama il medesimo titolo del mitico pezzo di Dylan, ma è evidente a tutti sin da subito che nulla di ciò che ascolteranno li riporterà alle sonorità del menestrello di Duluth. Il climax raggiunge forse il suo top con “Let down” che personalmente ritengo il pezzo più bello dei Radiohead per il dosaggio perfetto fra strumenti rock ed elettronica, usata sempre solo come cornice, ma soprattutto per la sua classe estetica senza pari. Nell’immaginario collettivo tuttavia, anche grazie al suggestivo video, il brano portabandiera di Ok Computer resterà forse “Karma police”, nel quale la voce di York suona quasi ubriaca e sfasata, eppure proprio per questo coinvolge senza fatica, con tutto il suo carico di straziante alienazione.
Il tris d’assi finale formato dalla dolce ninnananna di “No surprises” (che resta tale senza mai esplodere), dalla morbida “Lucky” (che acquista un minimo di progressiva ruvidità) e dall’inattesa carezza dilatata di “The tourist” (con tanto di assolo elettrico finale) resta da antologia della storia del rock. Quando partiremo per la nostra Isola Deserta, Ok Computer sarà certamente nella nostra valigia, se non altro per poterci ricordare ogni tanto che la decade che ha chiuso il secolo scorso ha saputo regalarci più di qualche disco veramente indimenticabile.
Chiudo con una frase emblematica detta da Tom Yorke in un’intervista dell’epoca rilasciata a Rockstar: “Ogni volta che registri una canzone, devi essere fottutamente sorpreso del risultato”. Ebbene in questo caso la sorpresa (più che positiva) per ognuno dei dodici pezzi del loro album, fu anche del mondo intero.