Radiohead – In rainbows.
C’é qualcosa di ancestrale nei dischi dei Radiohead. Qualche sonorità che fa parte del subconscio di ognuno di noi, come se fosse scritta in un ipotetico genoma della psyche umana (intesa come attitudine psychedelica, non come insieme di funzioni cerebrali).
Ed é così ad ogni uscita della band, da “OK Computer” in poi, con la parziale eccezione di “Hail to the Thief”.
Questa é probabilmente la chiave del loro incredibile successo.
Incredibile perché ad un primo ascolto buona parte dei loro brani risultano ostici, come se si trattasse di una ultra-elittaria cult band. E invece, nella struttura delle composizioni, nei ritmi ermetici e nei non-ritmi, in quegli accordi minori, nelle sonorità soffuse, aliene ed ultra processate di tastiere e chitarra, nonché nell’assolutamente inedita voce del singer, risiede il mistero.
La connessione tra (anti) melodia e neuroni potrebbe essere mediata proprio dalle tristi di-assonanze che tramite sinapsi rockergiche di ancestrale memoria rievocherebbero quel qualcosa di irresistibile, come se si trattasse di endorfine che si legano indissolubilmente ai loro recettori.
Ho avuto per la prima volta quest’impressione ascoltando in cuffia* “Amnesiac”; e non ad occhi chiusi… era il Luglio del 2001, sarei diventato padre 5 mesi dopo ed il cielo terso e blu scuro della Gallura faceva da sfondo al succedersi delle suggestive tracks del più psichedelico degli album dei Radiohead.
Tra i gruppi famosi, i Radiohead sono sicuramente il più autorevole e poderoso rappresentante della psichedelia progressiva più genuina e meno pomposa dai tempi dei Pink Floyd. A differenza di questi ultimi però, I Radiohead hanno saputo mantenere nel tempo il loro stile assolutamente “autoctono” e coniugare come nessun altro la fama con l’innovazione. Come loro, solo gli sfortunati Stereolab e gli inarrivabili Tuxedomoon hanno saputo fare, ma senza il successo del quintetto di Oxford.
L’opinabilissimo inquadramento appena partorito non viene smentito, a mio avviso, nemmeno dall’ultimo lavoro della Band, anche se la struttura compositiva dei 10 brani di In Rainbows é più semplice e lineare rispetto, ad esempio, a Kid A e Amnesiac. É predominante la canzone, con notevole presenza della voce di Yorke, sostenuta da sovrapposizioni di cori ed atmosfere dilatate, sognanti. Si tratta di un album molto melodico, ma non vi é molto spazio per sequenze banali o melense.
Ad esempio, nel brano di apertura “15 Step”, estremamente suggestivo, il gruppo sa coniugare l’asciuttezza dei ritmi elettronici con il complesso inscindibile di chitarre, tappeti di tastiere siderali e voce, mentre semplicemente magnifica è la sequenza di un pseudo-mellotron campionato che segue un urlo (sembra di gioia) di un fanciullo e che precede di poco la conclusione del brano.
“Nude” è una dolcissima canzone, con la voce che raggiunge veri e propri momenti di “lirismo”, accompagnata da un arrangiamento di batteria, basso e tappeti/arpeggi piuttosto scarno, ma estremamente efficace. “Weird Scenes/Arpeggi” è il mio brano preferito, tanto malinconico quanto ispiratore di ottimismo, mentre “Faust Arp” mima per pochi attimi l’arpeggio mitico ed ultra-copiato di “Dear Prudence/Brain Damage” per poi svilupparsi autonomamente attorno a fraseggi di archi che ricordano anch’essi le atmosfere del doppio bianco Beatlesiano, ma senza il coinvolgimento e la genialità nè dell’una nè dell’altro.
Interessante e inedito (almeno per i Radiohead) il ritmo tribale alla Dead Can Dance dell’inizio di “Reckoner”, ma nello sviluppo del brano non mi sembra ci sia altro di stimolante da segnalare e si inizia ad intravedere un certo calo di incisività. Meglio articolata e molto Radiohediana (finalmente!) “House of Cards”. Infine, in “Jigsaw Falling into Place” tornano le citazioni autorevoli con un ritmo di batteria che sembra suonato dai Cure in un brano tutto sommato piacevole e a tratti suggestivo, ma con un finale terribile. La pacata e sognante atmosfera di “Nude” e dell’inizio dell’album in generale, si riaffaccia con tutta la sua semplicità e immediatezza nella track di chiusura “Videotape”, anche se personalmente, non condivido la scelta tecnica produttiva della sequenza ripetitiva di percussioni campionate che avrei preferito un po’ più curata e con un’ambienza un po’ più profonda, sembrando invece così quasi avulsa dal resto del brano.
Infine, due parole sulla qualità di registrazione. Trattasi di un’incisione molto equilibrata per essere un disco di suoni prevalentemente elettronici e con vasto utilizzo di campionamenti e suoni processati. Ascoltato a volume moderato con le mie Thiel CS 1.6 pilotate da un NAD 3130, “In Rainbows” regala momenti di autentico piacere d’ascolto, anche se globalmente inferiore alle suggestioni oniriche di Amnesiac.
In conclusione, un album abbastanza interessante, con momenti molto elevati, ma altrettanti cali di tono. A mio modesto avviso globalmente inferiore alla media (peraltro elevatissima) della restante produzione Radioheadiana.
(*) Ascoltare Amnesiac in cuffia, preferibilmente all’aperto fissando il cielo, é un’esperienza che consiglio calorosamente.