Radiofiera “Atimpuri”, recensione
Questo lavoro nasce all’interno di un mondo dove si parla una lingua che non si scrive
Luigi Meneghello
I Radiofiera approdano alla loro prova del nove, tornando dopo meno di un anno dalla loro Acustic session, ma lontano più di due lustri dall’ultimo full lenght di inediti. Dieci tracce in cui, nel bene e nel male, possiamo ritrovare tutto quel rock venato di folk e tradizione, che ha sempre caratterizzato la band trevigiana. Come agli albori ancora oggi voce e chitarra portano il nome di Ricky Bizzarro, fondatore e mastro musicista, e Giuseppe “Bepi” Fedato, anime di un quartetto che trasuda maturità e al contempo voglia di dire e manifestare. Le note che si innalzano dalle partiture rappresentano infatti sviluppi sonici attenti e ponderati, abbarbicati ad un songwriting accorto, che spesso esula dalla faciloneria lirico-compositiva, che non sembra essere di casa in questo nuovo convincente Antinpùri.
La band, nascosta dietro l’animo oscuro di trattazioni musicali tradotte dal vernacolo, si spinge come di consueto verso una mescolanza riflessiva e mai casuale di divergenti musicalità, all’interno delle quali ci si ritrova proiettati in un cupo e cinico mondo osservato dall’inchiostro di Bizzarro, che tende ad appoggiare la sua delicata e drammaturgica arte su di un palinsesto sonoro particolare, annoverando collaborazioni nobili e nobilitanti, come la splendida voce di Ombretta Rossi. Il disco vive sulla tradizione idiomatica di un viatico che mette a confronto il cantautorato italiano old style, con metodologie alternative, come dimostra l’alba iniziatica di Bianco su Bianco, che a tratti sembra ricordare l’esposizione artistica di Manuel Agnelli.
La traccia iniziale attraverso il suo pathos evidenzia i mali di una vita fatta di stenti emotivi, dolori e ricerca di sollievo effimero, una vita in cui la fabbrica ti spezza(…) e lungo la strada(…) i platani hanno foto di ragazzi che non volevano invecchiare . Un dialogo con il destino, che prosegue spostandosi verso il tentativo (Me ciamo fora) di definire le scelte oculate di una vita acre, attraverso un urlo di rivoluzione interiore che lotta contro una calmierante omertà di intenti. Di certo uno trai brani migliori, grazie alla sua semplicità e genuinità, in cui una preziosa chitarra acustica accompagna stilemi elettronici timidi e complementari.
A tutto ciò si unisce poi al nereggiante spazio di Bambola, che si dissolve prima nel punk poppeggiante di Foie da vento e poi nel rock anni ’70 di El MIracoeo, la cui andatura LouReediana si prodiga contro il bigottismo e i limiti sociali di una cultura moderna, che non riesce più a ragionare senza ricadere nel più bieco qualunquismo. Se poi è vero che le penombre del pesante cielo di Luna e il free rock rumoreggiante diVudubebi offrono un quadro d’ampio respiro all’arte compositiva della band, è altrettanto veritiero che il meglio di sé il combo riesce a darlo nel momento in cui si distacca dall’atteso, come accade nella nera filastrocca Natisemonatituti, brano che vive tra cinismo e allegro divertissement.
Insomma un disco che servirà ai fan della band per rafforzare il rapporto con la musicalità del quartetto, ma che al contempo darà l’opportunità a chi non conosce i Radiofiera di iniziare ad amarli per quello che sono!