Quiet confusion “Jungle”, recensione
Si chiamano Quiet Confusion e sono una rock band (neo-)nata nel 2009. Arrivano da un garage della campagna veronese e da qualche mese, licenziati dalla Go down records, sono giunti al pubblico con il loro Jungle, contenitore tanto vitale quanto privo di esagerazioni. Un compendio sonoro legato da un resistente cordone ombelicale, spontaneamente saldato al mondo sporco e crudo del rock’n’roll. I suoni spesso innestati su impianti fortemente funky, appaiono in grado di raccogliere celate blue note, per ridefinirsi alla luce di sonorità semplici, pronte a palesare una verve particolarmente adatta per il mondo on stage.
L’intento del quartetto appare sin troppo chiaro nella sintesi espressiva occultata dalla fitta e misteriosa selva nera in cover art; chi vuole avvicinarsi alla band lo dovrà fare con cognizione di causa, consapevole di dover entrare in un mondo genuino e senza troppe pretese. Se l’approccio è proprio quello di farsi travolgere dalla vocalità cartavetrata e dai riff seventies, allora siete nel posto giusto. Infatti troverete sonorità adeguate a fornire il giusto supporto emozionale, in cui l’impronta sonora appare interessante e coinvolgente, ma talvolta fuori fuoco.
I ragazzi sono giovani e se brani “banalotti”come Freeway possono essere considerabili fisiologici, è con piccole perle come il root blues di Electric sunday che l’ascoltatore potrà convincersi a proseguire sulla strada dei Quiet Jungle.
L’album scorre fluido tra sensazioni Idol (Jungle) e forti marcature dagli interludi funky (Overdrive), pronti a riproporsi senza soluzione di continuità in andamenti adeguati a far coincidere la modernità espressiva ai passaggi chitarristici vicini al mondo di Jewis (Streat love lady) e alle sorprendenti radici classicheggianti (Baby take the sun on the beach).
La velocità esecutiva si percepisce come una necessità artistica della band, che non nasconde citazioni legate alla prima generazione Guns’n’Roses, né al mondo tanto amato da Lemmy. Strutture groove come quelle dettate dai movimenti di Rock till i ride e Funiculi into the tetrapack, oltre a celare una buona dose di ironia, parlano chiaramente la lingua universale del rock’n’roll, arrivando a definire piccole e semplici perfezioni acustiche come dimostra Death proof race, travolgente brano che non sfigurerebbe nell’original soundtrack di Sons of Anarchy. A chiudere le ali del rock è infine Jack the ripper, annoverabile tra le migliori tracce del debut, non tanto per i sensibili cambi direzionali, quanto per lo sviluppo delle strofe stratificate su multi vocalità (scelta vincente e riuscita), qui al servizio di lungo outro strumentale, che ridefinisce ancora una volta questo Jungle come un album buono da ascoltare…ma di certo ottimo da vivere sotto il palco!