Pearl Jam – Back Spacer. seconda recensione.
Prima dell’uscita di Backspacer una delle questioni sul tavolo era la possibile influenza, a livello stilistico, che avrebbe avuto l’episodio intimista di Into the Wild (il primo cd/sountrack di Eddie Vedder), sul nono cd in studio dei Pearl Jam. Ebbene non è necessario ascoltare l’intero album per capire che, al contrario, l’auto scelta dalla band, per percorrere la loro nuova strada (la prima senza una major!), è decisamente da corsa.
Quindi, se deciderete di salire a bordo, non dimenticate di allacciare bene le cinture (state tranquilli: sulla via sono previsti dei pit-stop in comode e riposanti “oasi”) perché l’accelerazione è fortissima sin dall’inizio con le prime due canzoni: Gonna see my friend e Get Some, grunge allo stato puro.
Anche la successiva The Fixer non manca certo di carica esplosiva, ma mantiene quell’appeal radiofonico che ne giustifica la scelta come singolo apripista. Nel testo, Vedder si immagina come taumaturgo universale augurandosi – quasi ossessivamente – di poter raddrizzare ciò che in qualche modo è andato storto (When something broke, I wanna put a bit of fixin on it – When something’s bored, I wanna put a little exciting on it – If somethings low, I wanna put a little high on it – When something’s lost, I wanna fight to get it back again).
In Johnny Guitar si trovano novità stilistiche degne di note, sia nel modo di cantare di Vedder, sia in alcuni pezzi di chitarra suonati in maniera quasi grezza, che rendono il pezzo interessante. Ascoltare per credere.
Il titolo di canzone più bella dell’album lo assegniamo ad Amongst the waves. A livello musicale si tratta di una sorta di Power-ballad di splendida fattura, con tanto di assolo nel mezzo che troviamo fantastico. Quanto alle lyrics: evocano un senso di rinascita…quasi religiosa (But I am up riding high amongst the waves – Where I can feel like I Have a soul that has been saved – Where I can feel like I’ve put away my early grave), legate alla metafora del surf , inteso come sfida liberatoria alla vita e alle sue difficoltà.
Bellissimi anche l’epico crescendo di Unthought known – con un intenso incrocio di chitarre – e la melodia rock di Force of nature, entrambe Pearl Jam “di origine controllata”.
Ma veniamo alle annunciate oasi di cui sopra: a spezzare la cavalcata rock ci pensano Just Breath (piazzata giusto nel mezzo del percorso) – costruita sullo strumentale Tuolumne di Into the Wild-, il mid-tempo di Speed of sound e soprattutto la struggente e malinconica The End.
In quest’ultima canzone, un uomo comunica alla propria compagna la propria tristezza per il proprio futuro (verosimilmente a causa di una malattia: Looking up from inside of the bottom of a well, it’s Hell, I yell – but no one hears before I disappear, whisper in my ear), con tanto di “dramma” familiare” (How do you think it is to leave you here with the kids on your own, Just don’t let me go) e di inevitabile empatia per chi può aver vissuto situazioni simili.
Per sintetizzare il nostro giudizio sul viaggio di Backspacer, ci prendiamo la responsabilità nell’affermare che è praticamente impossibile che gli amanti del gruppo di Seattle ne restino delusi, visto che potranno trovarvi tutto ciò che li ha spinti ad amarli per quasi un ventennio (fatto salvo per i testi politici, a detta di Vedder, volutamente allontanati per un po’). Agli eventuali nuovi ascoltatori, invece, diciamo solo: salite sull’auto….non ve ne pentirete.
A ben vedere, la garanzia di successo stava già nella scelta della produzione, affidata alle abili mani di Brendan O’Brian (già con loro in Vs. e Yeld) che notoriamente ha la capacità di trarre il massimo dagli artisti particolarmente ispirati (si pensi, uno su tutti, al già mitico The Rising di Springsteen), come oggi lo sono senza dubbio i Pearl Jam.
Infine una sorpresa: con una copia (originale!) del cd si ha la possibilità di scaricare gratuitamente due concerti, scegliendo da una lista di 10 (noi abbiamo optato per Philadelphia – 2005 e Hartford – 2008: due set list veramente eccezionali).