Pearl Jam – Back Spacer. recensione
Partiamo dal presupposto che tutte le band possono commettere degli errori. L’unico ostacolo a questa teoria è che, ultimamente, si vedono troppe “patacche” e pochi capolavori.
L’occasione si è presentata in contemporanea con l’uscita dal buio di molte band che hanno voluto mantenere alto il nome delle loro formazioni per dimostrare al grande pubblico che erano ancora vivi: è il caso dei Metallica o dei Depeche Mode o, ancora peggio, dei Guns N’ Roses ( con il tremendo e, non della ex-band, “Chinese Democracy” ). In entrambi i casi l’alternativa sarebbe stata quella di rinchiuderli nello studio ancora per un pò finchè non avessero partorito qualcosa di migliore. Gli unici, invece, che hanno avuto il coraggio di riemergere, tenendo alto il loro nome, altri non sono stati che i Megadeth che, con il loro “Endgame”, hanno saputo regalare ai loro fan minuti e minuti di buona musica metal che riporta la mente agli anni 80.
Si spera, quando si vedono più i disastri che le vittorie, che le altre band imparino dagli errori altrui e, nel caso ci fossero delle “pecche” nel loro lavoro, di correggersi per non suscitare la noia nei loro ascoltatori. Ma tutto questo ragionamento dipende anche da cantante a cantante. Eddie Vedder, il quale sa cosa vuol dire saper creare una canzone e un disco, ha incantato milioni di fans con la sua voce baritonale non solo grazie all’ultimo lavoro solista ( la colonna sonora per il film “Into The Wild” con la quale, per la canzone “Guaranteed”, vinse un Golden Globe ), ma anche grazie a quella meravigliosa combinazione tra Seattle e testi densi di verità, lotta sociale, depressione, storie di cronaca nera: ovvero i Pearl Jam.
La band nacque dalle ceneri dei Mother Love Bone e ebbe solida formazione soltanto con l’entrata di Eddie Vedder come cantante e autore di alcune delle pietre miliari della band ( “Alive” e “Black” ). Col passare del tempo i Pearl Jam, tra proteste per la vendita dei biglietti dei loro concerti contro la Ticketmaster che prendeva delle percentuali ( in nero ) sulle vendite e incidenti ai loro concerti ( l’incidente di Roskilde, in cui 9 fans della band furono schiacciati e soffocati da tutta la folla urlante che era andata a vedere il concerto ), registrarono innumerevoli cd che li fecero allontanare dalla prima definizione grunge che si era dato loro per farli avvicinare al rock a volte melodico ( Riot Act ), a volte garage ( No Code ), che, in non poche occasioni, ha lasciato amareggiati i fans. Oggi si ripresentano, dopo ben tre anni dall’ultimo album d’inediti, con “Back Spacer” che, nonostante l’averlo risentito più volte, non si capisce da quale mente sia stato partorito o se davvero i Pearl Jam c’abbiano lavorato per tirare fuori non si sa bene cosa.
Esaminiamo il caso con molta calma: l’intero album non sembra assolutamente un lavoro targato Pearl Jam ( tranne per il fatto che Vedder è difficile non riconoscerlo ), per il semplice fatto, come primo elemento, che sono presenti troppi colori sulla copertina. Questo, però, può essere una minaccia come anche una speranza per i fans: l’ultima copertina così colorata portava il nome della band come titolo dell’album e quel lavoro era stato considerato come un ritorno alle origini delle vecchie sonorità del gruppo di Seattle, quindi, nonostante, l’eccessiva colorazione i testi mantenevano lo stile “vedderiano”. In questo caso si tratta proprio di una minaccia che, fortunatamente, sembra confermare un vero e proprio alone di serenità che ruota intorno alla band. Purtroppo, però, altrettanta lucidità non è mantenuta in ambito musical e di testi.
“Back Spacer” sembra dare l’impressione di un raduno dei Pearl Jam in un pub con il loro pubblico, per raccontarsi qualche storia non tanto importante e poi andare via per concedersi delle piccole soddisfazioni personali e pensare alla propria condizione esistenziale. Ma, solo all’ultimo, ci si ricorda di non aver dato l’ultimo messaggio e allora si ritorna nel locale per dare la restante perla di saggezza alla folla. L’ambiente, anche solo l’idea, è dato dal video del primo singolo scelto: “The Fixer”, canzone che pretende di parlare su come rendere migliore ogni cosa. Partiamo, comunque, dall’inizio: “Gonna See My Friend”, l’incontro, la spensieratezza che ne deriva, la voglia di parlare; una canzone senza troppe pretese, ma che sembra non distaccarsi di tanto dai Pearl Jam, anche se un po’ di differenza si sente. Il tutto continua su “Got Some”, espressione del fatto che i Pearl Jam sono i detentori della buona musica, ma prima di fare tali affermazioni bisognerebbe aspettare, poiché con “The Fixer” e con la successiva “Johnny Guitar” si cade in qualcosa che, l’ascoltatore medio dei Pearl Jam, farà difficoltà a sentire per quel senso altalenante tra la sorpresa e il disgusto, facilmente tramutabile in delusione e amarezza. Da qui in poi, la band di Seattle, si muoverà tra il pop spicciolo ( Unthought Know ) e il rock ( Supersonic ), ovvero tutto tranne il voler sembrare il gruppo che tutti conosciamo. Oltre a questo, però, sembra che ci siano degli echi di un qualcosa proveniente dal passato: ebbene il richiamo, purtroppo, non viene dalle origini ( ad eccezione per “Among The Waves”, ovviamente un richiamo a “Oceans” presente nell’album d’esordio “Ten” che racconta la passione di Vedder per il surf ), ma dal recente passato ovvero l’avventura di Vedder con il film “Into The Wild”. Infatti, possiamo ritrovare quello stile intimistico in una canzone completamente scritta da lui: “Just Breathe”, brano, per molti, versi indirizzato alla vita matrimoniale e alla fortuna di avere qualcuno accanto. Le uniche canzoni dell’album che sembrano portare il marchio di Vedder, nel vero senso del termine ( rivolta, critica alla società, ecc. ) sembrano essere “Speed Of Sound”, la quale indica la velocità con cui le cose intorno a noi sembrano cambiare e “The End”, l’ultima cosa da dire prima di chiudere l’album che, più o meno, riassume i concetti del brano precedente.
L’album non è brutto, ma, molto semplicemente, non è dei Pearl Jam. Poteva essere fatto da qualsiasi altro cantante, anche un Bruce Springsteen andava benissimo. L’unica cosa vera è che questo cd è la conferma che le vere band, quelle che ancora hanno voglia di mettersi in gioco, non esistono più, ma emergono solo quelle che sembrano non voler dedicare molto tempo al loro lavoro.
Se Kurt Cobain fosse ancora vivo, avrebbe ragione di prendersela con i Pearl Jam come ha fatto in passato.