Pavese Rudie “Pavese Rudie”, recensione
È un nuovo inizio
Jacopo, aka Pavese Rudie, ha deciso di scuotere il proprio ego mostrando la sua anima musicale uscendo, solo momentaneamente, dalla “Baracca” capitolina in cui vive e racconta le proprie sfumature musicali. Spinto da una serie di Guest star straordinarie, si arrampica nel mondo reggae, qui velato di dub e hip hop. A definire le tracce ci pensa un attento songwriting e una voce particolare, che riesce, senza fatica, a far sopravvivere la cocina romanesca, anche sull’improbabile (ma al contempo giocoso e disincantato) approccio alla lingua creola giamaicana.
Il disco, targato Baracca Records, si presenta con un’inusuale veste nera in slim digipack, da cui emergono stilismi puliti ed essenziali. Note delicate che definiscono i contorni di un mondo vissuto con naturalezza, mediante i suoni iniziali di Bass militant, anthem che avvolge sin dal primo ascolto, grazie ai suoi riusciti passaggi sincopati, atti a restituire l’amore per le note pronte a battere in levare l’anima.
Il Viaggio verso il sole giamaicano prosegue poi con lo stile roots minimal di Under mi style e il melanconia slow di Reggaeperoma, ispirata ai sentori di una suburbia spigolosa quanto l’approccio alla lingua anglofona. Sulla medesima linea street si pone poi il featuring con Boom Buzz & Reddog, in cui gli umori centro-sociali vengono alimentati da un incrocio stilistico riuscito e perpetrato con This Song, raccontata assieme a Culla & Papa Cloaca, attraverso suoni che proseguono il proprio naturale viaggio con un più classico ritmo raggamuffin.
Le buone performance però mostrano il proprio lato migliore mediante le visioni narrative de Il mondo che vorrei, non solo grazie alle barre di Terron Fabio, ma anche per merito di un ritmo in levare, che si sposa con la tradizione “sudista”, pronta a raccontare un’aurea partenopea ricca di sfumature.
Il mondo di Rudie ci trascina poi verso creature soniche libere e danzanti, che osservano la struttura sonora di Estate ancora, aperta da una voce filtrata, pronta a riversarsi verso i movimenti caldi raccontati dai fiati, in grado di aprire i sorrisi spensierati, proprio come solo lo ska reggae riesce a regalare. Sul medesimo orizzonte si pone, infine, la successiva South, riuscita e ragionata trama da ballare ad occhi serrati, lasciandosi delicatamente dondolare dalle sonorità sui generis, pronte a raccontare con ironia e sagacia un intreccio di rimandi curiosi, posti tra espressività linguistiche e citazioni inattese.
Chiude (ahimè) il disco I’N’I con le sue stranite sensazioni folk, posate su percussioni leggere ed osservative, in cui le pennate del brano si pongono in maniera ragionata è tutt’altro che casuale, portandoci verso la conclusione un disco di certo godibile, in grado di rinverdire (nel caso ce ne fosse necessità) il reggae italiano, attraverso strutture semplici, che non possiedo particolari espressività, ma si limitano a raggiungere gli amanti del genere attraverso quell’anima e quel corpo…che Jacopo costruisce anche grazie a ben radicate roots.