Pat Metheny Unity Group Live, Roma, 2014
A Roma ogni concerto di Metheny è da tempo un concerto di Pat -è ormai così che viene chiamato da tutti gli spettatori, molti dei quali vengono da un trentennio di tour immancabilmente di successo nella capitale-. D’altra parte è proprio un suo disco live ad aprirsi con gli spettatori di Napoli che intonano Minuano, a testimoniare che il rapporto con l’Italia è da tempo un bel rapporto.
Intro e finali acustici in solitudine per un concerto che è la rappresentazione dell’ennesimo nuovo capitolo per il leggendario chitarrista del Missouri, venuto qui stavolta con il nuo Unity Group, dream team formato da Chris Potter ai fiati, Ben Williams al contrabbasso (penalizzato dal mixaggio come di consueto per i bassisti nel mondo metheniano) e Antonio Sanchez alla batteria. Il concerto è decisamente un caleidoscopio stilistico, che a parte i citati momenti è per il resto strutturato in due blocchi: il primo a proporre l’inizio dell’avventura Unity e qualche brano storico rivisitato; il secondo incentrato sul nuovo progetto Kin e con variazioni sul tema di cui parleremo.
Sette chitarre diverse accompagnano Pat durante il set. Nel primo blocco, dopo un avvio caratterizzato dagli accordi aperti e dall’enfasi ariosa della Picasso guitar (un po’ stantio dopo qualche anno di proposta, ma certo efficace per chi non ne abbia già ascoltato abbastanza) si parte col gruppo che suona da subito compatto come pochi (Potter ha un problema al bocchino di un sax ma rimedia prontamente). Primo album dello Unity Group e qualche rivisitazione, dicevamo, con James che diventa uno swing diagonale Monkiano il cui tema serve da apertura e chiusura per un’improvvisazione fantastica di Sanchez, che ancora una volta si conferma come uno dei riferimenti assoluti nel drumming moderno. Folk Song #1 è invece mantenuta con tutta la sua carica grezza e diretta, ventosa com’era già, con Potter a riportarci su Brecker e a metterci del suo.
Col secondo blocco arriva Giulio Carmassi, multistrumentista italiano che aggiunge via via quel che sembra la mancanza fondamentale di questo gruppo rispetto all’inevitabile paragone istintivo col Group storico: un po’ di calore e di atmosfera. Il nuovo Kin è più sfaccettato del precedente lavoro di gruppo; si fonda molto sulle strutture compositive, articolate e complesse ma non cerebrali, a parte qualche momento tecnicamente encomiabile ma che non supera la fase di pirotecnico esercizio di stile. Il termine Unity trova qui grande compimento, con una capacità di interagire nella gestione dei volumi davvero notevole e palpabile, coinvolgente. Arriva anche un momento di esecuzioni in duo, con i musicisti a darsi il cambio per suonare col leader (e un siparietto su Bright Size Life, il cui inizio viene rimandato di qualche secondo per la Gibson che non vuol saperne di accordarsi al volo e necessita di un poco di isolamento, scollegata). Finale “necessario”, con Have You Heard cantata da tanti presenti e Are You Going With Me salutata con l’ovazione di chi attendeva la sua Albachiara da minuti e minuti.
Ulteriore bis a chiudere con l’acustica in solitaria, si diceva, e spazio ad un medley che tocca This Is Not America, Last Train Home e gli album senza gruppo, restituendo il calore di cui prima si parlava con la grandissima sensibilità che sarebbe banale ricordare qui.
Grande concerto, gruppo eccezionale per tecnica e affiatamento, qualche calo di temperatura quando si cerca la complicazione senza portarla da qualche parte. Menzione negativa senza alcun dubbio per il merchandising, con magliette tinta unita e cappellini a 25 euro e la gente che arriva al banco curiosa e interessata per poi allontanarsi. Ancora grandissimo Pat, bravissimi tutti e ci manca tanto Lyle Mays. Ci manca non perché un artista debba sempre riproporre la propria storia (anzi sarebbe sbagliato l’approccio, tanto più con artisti mutliformi come Metheny), ma perché se invece di Mays e di una formula diversa si adotta un set con pianista molto nascosto e utilizzato poco e per scaldare le armonie ci sia affida ad un ingombrante e poco incisivo Orchestrion si dà l’impressione tangibile che un pezzo sia, letteralmente, mancante e da compensare.