Part lies, Part heart, Part truth, Part garbage – R.E.M. – Recensione
Solo pochi mesi fa raccontavo su queste pagine l’ultimo album dei REM, evidenziando come di fatto rappresentasse una sorta di compendio stilistico delle loro varie epoche. Difficile, anche se non impossibile, prevedere che dietro questa scelta apparentemente un po’ commerciale (nel senso nobile del termine, ben inteso) si celasse un retro pensiero che di lì a poco avrebbe sconvolto i propri fan: “abbiamo deciso di scioglierci”.
È per questo che, nonostante provi solitamente un certo disinteresse per i “best of”, ho deciso di recensire ugualmente questo “Part lies, Part heart, Part truth, Part garbage” (titolo tanto irripetibile quanto intrigante per una retrospettiva) considerandola una ghiotta occasione per un personale tributo a Stipe e company.
Il doppio cd, rispetto a “In Time” del 2003 (ultimo greatest hits + rarità), ricomprende anche la prima parte della loro carriera. Cosa non da poco visto che fra i primi album della band di Athens si possono gustare una serie di pezzi veramente notevoli come “Radio free Europe”, la ballata midtempo “Talk about the passion” e ovviamente la frenetica “It’s the end of the world as we know it”, che in Italia fu ripresa da Ligabue col titolo: “A che ora è la fine del mondo”.
Se dovessi “mettere in vetrina” un solo LP di tale era, la scelta ricadrebbe su quello d’esordio, Murmur, per la sua spontaneità (stratosferica “Sitting Still”) ma anche, paradossalmente, la sua maturità. Erano REM più grezzi certo, ancora underground, quasi sconosciuti in Europa ma che lasciava già intravedere i segni del destino glorioso che conosciamo. Quella gloria sarebbe arrivata col nuovo contratto discografico che, dopo l’abbandono dell’etichetta IRS, finalmente suggellava il matrimonio con una major: la Warner.
“Green”, che iniziava questa nuova avventura discografica, conteneva hit di livello come “Stand”, ma anche altre perle che non furono mai un singolo (e che inevitabilmente mancano nella compilation) come “World leader pretend” o “Hairshirt”. La vera esplosione mondiale arrivò tuttavia con “Out of time” nel 1991 e il singolo “Losing my religion” che ancor oggi rappresenta a mio avviso una vetta maestosa mai più raggiunta.
I tre album seguenti, ognuno a suo modo, contribuirono a suggellarne la consacrazione definitiva rendendoli indubbiamente il gruppo rock d’oltre oceano più amato dell’ultimo ventennio.
Il primo di questi, “Automatic for the people”, è un disco tradizionale dal cuore profondamente americano, con quei suoi suoni più acustici, intimisti e malinconici che aveva come emblema “Everybody hurts”. Il pezzo è una sorta di inno consolatore di tutti i cuori in pena del pianeta, con quel suo incedere lento, ma proiettato verso un crescendo d’archi finale. Riascoltarla oggi commuove ancora, devo ammetterlo.
Così come risentire “What’s the frequency Kenneth?” ci ricorda perfettamente quel tuffo punk fatto di chitarre elettriche distorte e incarnato dal cd “Monster”, che quasi urlava la volontà di affrancarsi dall’introspezione radicale del fortunatissimo predecessore. Fu un rischio certo, ma il pubblico lo apprezzò fino quasi ad osannarlo.
Ancor oggi sottovalutato è invece “New adventures in hi fi” che passò alla storia più per la successiva dipartita dalla band del batterista Bill Berry (miracolosamente sopravvissuto ad un’aneurisma al cervello) che per le molte belle canzoni che conteneva. “Electrolite” ad esempio, che lo chiudeva, valeva senza dubbio “il prezzo del biglietto”.
Una volta rimasti in tre, Stipe, Buck e Mills stabilirono che il tempo del salto artistico era ormai arrivato, e spostarono l’asse del suono dal rock al pop, a volte sperimentale a volte sofisticato, basato essenzialmente sul ritmo di una drum machine e tanta elettronica. Questo album della svolta si intitolava “Up”, e a livello dei testi può essere considerata una sorta di auto elaborazione della propria “sindrome da abbandono” dell’amato compagno di cui sopra, ormai stanco della vita da rock star. In “Part lies…etc” l’unica canzone porta bandiera è “At my most beautiful”, a mio parere niente affatto la migliore (“Daysleeper” meritava di più).
“Reveal” ed “Around the sun”, che seguirono, furono giudicati commerciali dai fan più incalliti, ma confido che fra una decina di anni, come spesso accade, questo giudizio verrà radicalmente rivisto. Al riguardo mi limito a proporvi un riascolto di “Imitation of life” e “Leaving New York”.
Il gran finale di “Accelerate” – col ritorno a un suono rock che in parte ricorda il già citato “Monster” – insieme all’ultimissimo “Collapse into now”, forma la degna cornice di una carriera leggendaria, che magari un giorno, chissà, potrebbe vedere un’inaspettata reunion. Per ora non possiamo far altro che prendere atto della loro decisione godendoci l’incantevole “We all go back to where we belong”, prezioso inedito (in tutto sono tre) che i Rapid Eyes Movement ci hanno lasciato in eredità.