Paper Airplane – Alison Krauss & The Union Station
Se non avete ancora avuto il piacere di ascoltare un album di Alison Krauss penso proprio che sia arrivato il momento di iniziare a pensarci.
È chiaro, la musica country, blue grass, americana o come volete chiamarla, non è poi così seguita qui in Italia, ma uno dei miei mal celati obiettivi, che da oltre un anno pubblico recensioni su questo sito, è di poter invertire un po’ questa tendenza negativa. E, detto tra noi, Alison Krauss sarebbe veramente un buon inizio per chiunque volesse seguire il consiglio.
Il primo motivo è semplice: la sua voce è unica, cristallina, dolce e passionale tanto che la cosa non deve esser sfuggita a un certo T Bone Burnette, se la volle al fianco di Robert Plant per confezionare un mezzo capolavoro (pluripremiato) come “Raising sand”.
Il secondo è che le sue canzoni hanno una melodia celestiale e creano atmosfere da “caminetto” così belle, che quasi quasi vorresti che fosse sempre autunno, solo per poterle vivere al meglio, come quasi tutte meritano.
Anche questo “Paper airplane”, come i suoi predecessori, così pieno di ballate da prateria americana da far sognare soprattutto chi non ha mai avuto la fortuna di vederle, vola prima in alto, poi si libra nell’aria per puntare infine giù, in picchiata, dritto al cuore del (“ben capitato”) ascoltatore.
Esempio lampante di questo ne è proprio la title track firmata da tale Clasterman, la stessa penna di pezzi indimenticabili come “Lucky One” e “Goodbye is all we have” nei precedenti due dischi con gli Union Station, e sinceramente non si capisce perché la donzella non si sia mai decisa di affidare al prode cavaliere un intero disco, visto il peso specifico che ogni volta hanno le sue canzoni. Il testo parla di una donna sola che, abbandonata dal suo uomo, non riesce a farsene una ragione (waiting inside for the cold to get colder), dopo aver visto il proprio amore volare come una aereo di carta spinto dal vento, ma senza più speranza di spiccare il volo. Poesia pura.
“Lay me burden” non è da meno quanto a malinconia e pathos profusi dall’artista, accompagnata nell’occasione da una band ancor più in forma del solito (quanto ci piace il suono di quel Dobro di Jerry Douglas che ne cesella ogni passaggio). Qui si parla della morte, di chi si vede già presso i cancelli dell’aldilà e ascoltando gli angeli cantare si rifiuta di arrendersi preferendo sognare i bei giorni ormai andati. Il tema e il mood sono paragonabili a “The end”, che chiude Backspacer dei Pearl Jam. Cosa dire? Andate, sentite e godete.
Per avere un po’ di ritmo e poter battere il tempo col piede, bisogna attendere “Miles to go” con un trionfo di chitarre acustiche e violino (della stessa Alison) che la rendono, in una parola, “emozionante”. Si sfogliano le fotografie, i ricordi cominciano a viaggiare nella mente e a un certo puntoun ’immagine d’oro rende l’idea delle occasioni perse: Like an hourglass, I’m a soul of sinking sand.
Non si possono non citare ancora “Sinking stone” per la sua estrema dolcezza e per quel falsetto del ritornello che entra sotto pelle, “Dimming of the day” (che steel guitar da urlo!) di Richard Thompson ma già resa famosa da Bonnie Raitt e la immancabile lullaby “Opening fareweel” (cover di Jackson Browne), che conclude in bellezza un disco a mio avviso già candidato, per acclamazione, al prossimo Grammy di categoria.
Al riguardo mi piace ricordarvi, e concludo, che la nostra Alison detiene (forse a sorpresa) il record di vittorie assoluto della preziosa statuetta con 26 successi, e di solito queste cose non accadono mai a caso, soprattutto quando si è dotati (grazie a Dio!) di fondamentali così notevoli, come pochi altri al mondo.