Paolo Conte – Psiche. Recensione
L’Avvocato della musica italiana lo ha presentato in Francia, sua seconda terra, lo scorso 5 settembre alla Salle Pleyel, davanti ad un pubblico di duemila persone ed accompagnato dalla prestigiosa Orchestra Sinfonica dell’Ile de France, prima di presentarlo al mondo intero il 19 dello stesso mese. S’intitola “Psiche”, contiene 15 brani inediti e per la prima volta Conte cambia casa discografica, passando dalla storica Warner alla Universal Music Group.
“Un disco di gomma”, così lo ha definito lo stesso (cant) autore, perché vede l’utilizzo di qualche sintetizzatore. Ma di gomma, ad ascoltarlo anche solo una volta, non ne troviamo molta. I dischi di plastica, in Italia, sono ben altri.
“Psiche”, che sfidò Venere per Amore di Eros e scese fino agli inferi. Psiche, al centro e title-track dell’album, perché bell’esempio di quei personaggi che hanno una storia da raccontare, personaggi tanto cari alla poetica di Conte.
Il tema centrale dell’album è si l’Amore, quello ormai scritto, descritto ed urlato in almeno il 90% dei dischi italiani di sempre, ma la classe e la raffinatezza con le quali il jazzista piemontese lo attraversa e lo canta è ben altra storia, è un gradino sopra gli altri, lo è sempre stato. Non solo l’amore de “L’amore che” e la meravigliosa “Intimità” però, tornano anche temi cari quali la bicicletta, con un bel brano “Velocità silenziosa” che riporta alla memoria il già cantato Bartali e il mondo del circo con il gusto slavo-balcanico di “Ludmilla”. A questo si aggiungono i misteri veri e finti dell’universo femminile con “Bella di giorno”, lo schizzo quasi cinematografico stile anni cinquanta di “Berlino”, l’ermetica storia di un personaggio improbabile che fugge da chissà che cosa di “Big Bill”e una nuova versione del brano scritto da Conte per Adriano Celentano “L’indiano”, che qui prende il titolo di “Il quadrato e il cerchio”.
Se ai testi, per lo più ellittici e poetici, dipinti di un tiepido ermetismo, affianchiamo linee melodiche nuove e forse più evanescenti, sicuramente con meno jazz, meno rumba, meno stile milonga e qualche sintetizzatore in più, avremo un buon disco, chic ed ambizioso, più di quello che può sembrare al primo ascolto.
Se ai suoi settant’uno anni, i suoi tanti premi vinti, i suoi spettacoli sempre impeccabili, affianchiamo la sua grande capacità di non sedersi mai, ma di mettersi sempre in gioco, avremo uno degli Artisti ancora degni di questo nome, seppur all’apparenza meno sornione ed ironico del solito.
Piacerà ai Contiani e non questo album. Per chi invece non ci sentirà dentro nulla di nuovo, nessun “Coup de theatre”, potrà comunque vederlo come un’ulteriore prova, che tra la banalità e il grigiore di questi tempi di musica, i piccoli diamanti ci sono, basta saperli cercare.