Out of the game – Rufus Wainwright – recensione cd
Mi è già capitato, recensendo altri dischi, di sottolineare con particolare enfasi il peso specifico di questo o quel produttore (uno su tutti: T-Bone Burnett) ma devo dire che, nel caso di Mark Ronson, questo risulta praticamente impossibile da evitare.
In passato è stato capace di tirare fuori dal cilindro una certa Amy Winehouse, all’epoca ignota, facendole vendere milioni di cd con quel capolavoro di “Back to black” e successivamente di ridare lustro a band che si erano letteralmente perse come i “Duran Duran”.
“Out of the game” sembra oggi rappresentare la grande occasione per Rufus Wainwright di girare la boa verso il mainstream e diventare una star con la “S” maiuscola e, se questo dovesse effettivamente avvenire, lo dovrà senza dubbio al succitato regista che lo ha diretto in questa sua nuova opera così decisamente pop, ma dal piacevole retrogusto vintage.
Rufus, bisogna dirlo, è un talento fuori dal comune, dal gusto musicale assolutamente geniale e sui generis, dotato di una voce unica che, a mio avviso, non ha alcun clone nel panorama mondiale. Fino adesso, però, tutto questo estro ha avuto modo di trovare il giusto riconoscimento solo fra i fortunati “pionieri” che hanno avuto la possibilità di conoscerlo e seguirlo sin dall’inizio. Chi ha ascoltato album come “Want two” o “All days are nights” potrà confermare che ciò è dipeso piuttosto ad una sua scelta di campo (o di stile) che non ad un’effettiva incapacità di sfondare. Fra i suoi album più belli ed accessibili, invece, per chi alla fine di questa pagina volesse, come dire, “approfondire il concetto”, consiglio sin d’ora sia “Poses” che “Want one”.
Tornando ad oggi direi che la title track che ha lanciato il nuovo album come primo singolo è un gioiellino di melodia e arrangiamenti retrò, con una strofa e un ritornello che ti entrano dentro e una gustosa chitarra “Harissoniana” che gioca il lodevole ruolo di “sporcarne” il suono, altrimenti così pulito. Il video che vi postiamo è un misto della sua teatralità ed ironia che contribuiscono da sempre a farne un personaggio.
Sorprende il midtempo soul così esplicito di “Jericho”, che sembra provenire da un’altra epoca, grazie a quel piano splendido, coro e archi che le fanno da ombrello e a qualche fiato piazzato al posto giusto.
La canzone più bella del disco, che gli consiglierei di scegliere come prossimo singolo per le radio, è “Perfect man”, ritmo incalzante e arioso dall’arrangiamento simile a “Record collection” (pezzo cantato da Simon Le Bon sull’ultimo cd di Ronson). Il testo come spesso accade con Rufus sembra autobiografico e parla delle difficoltà a superare un amore finito.
La mano del produttore è ben riconoscibile anche in altre notevoli canzoni come la (a modo suo) ballabile “Bitter tears”, l’eclettica e beatlesiana “Welcome to the ball” e l’avvolgente “Barbara”, cesellata da tastiere un po’ seventies.
Chi volesse risentire maggiormente gli echi dei vecchi album si affidi invece al crescendo di “Rashida” o alla ballatona – inconfondibilmente “alla Rufus” – di “Sometimes you need” (brano per chi ha voglia di evadere, col corpo e con la mente). Dolcemente spensierata anche “Respectable dive”, mentre l’unica canzone che alla fine suona un po’ troppo monocorde è Montauk, ma resterà un caso veramente isolato, per fortuna.
In estrema sintesi: se cercate qualcuno che ancora possa stupirvi, ascoltate e riascoltate “Out of the game”, sia se volete conoscere l’artista sia se, come chi vi scrive, ne siete incantati già da diverso tempo…non ve ne pentirete affatto.