Olympia – Bryan Ferry. Recensione
Il dandy del rock è tornato, più affascinante e ammaliante che mai.
Come al solito lo fa a modo suo, vale a dire coi suoi tempi (ben 9 anni da Frantic, ultimo cd di inedite) e con il suo stile inconfondibile, basato su un mix di suoni rock e suoni elettronici che si mescolano magicamente fino a comporre uno sfondo unico che rende ogni nuovo ascolto una sorta di misteriosa avventura.
Gli echi estetici della sua storia artistica ci sono tutti e Bryan Ferry non fa nulla per nasconderli. Basta buttare uno sguardo a quella copertina così sfacciatamente Roxy Music (sì sì… la musa ispiratrice di turno è proprio Kate Moss!), o un orecchio alle prime note di You can dance (così palesemente vicine a True to life, del fortunatissimo album Avalon) per capire che l’autore non solo non intende sfuggire al proprio passato, ma al contrario se lo porta dietro come una copertina di Linus.
Prendiamo, ad esempio la bass line di Alphaville o Shameless, fra i pezzi più radiofonici dell’album: potrebbero essere state direttamente catapultate fino a noi dagli anni ‘80 (Boys and girls o Bête Noire, fate voi) o ‘90 (Mamouna), e non per questo il suono ci risulta vecchio e arrugginito. Al contrario è decisamente fresco, tanto che ci piacerebbe ballarle subito, se solo esistessero ancora discoteche con un po’ di gusto e classe da metterle su.
Quanto alle ballate da sogno (Slave to love, Avalon vi dicono qualcosa?), oggettivamente il suo pezzo forte di sempre, sono qui degnamente rappresentate da almeno due nuove compagne di viaggio.
La prima No face, no name, no number (dei Traffic), è impreziosita da quell’effetto wuah wuah della chitarra elettrica, vero e proprio marchio di fabbrica sin dai tempi di Taxi.
Nella seconda, Reason or Rhyme, fra le decine di strumenti, spiccano un pianoforte e una chitarra elettrica che sanno renderla veramente incantevole, quasi epica.
Non manca poi la super cover di classe cristallina, Song to siren di Tim Buckley, già ripresa in questi ultimi anni da diversi artisti (fra i quali Robert Plant, David Gray e perfino George Michael come apertura dei suoi concerti negli stadi), ma che qui sembra tutta un’altra cosa, acquistando luminosità mai viste prima; e questo grazie all’arte di Ferry nel riarrangiare a suo modo pezzi totalmente differenti dal suo stile (con Dilanesque, recentemente, si è preso perfino il lusso di fare un cd intero di sole cover di Bob) e in parte grazie a session men del calibro di David Gilmour, già schierato con successo ai tempi di Boys and Girls.
Tranquillizziamo, insomma, coloro che fossero ancora in dubbio se valga o meno la pena spendere qualche euro per ascoltare questo ultimo lavoro dell’artista inglese (consigliamo la versione deluxe per il packaging fantastico e per due bonus tracks), infatti a nostro personale avviso l’investimento renderà nel tempo e la gran parte di questa musica non sfigurerà affatto nelle personali compilation dei fan (oggi le chiamano playlist!) che, pur mescolando passato e presente, non vedranno mai la differenza nella eccellente qualità dei singoli elementi.