Okkervil River – The stands in. Recensione
“The Stand Ins” raccoglie brani nati durante la lavorazione di “The Stage Names” che per varie ragioni non vi hanno trovato una collocazione. La continuità che si riflette nei titoli e nelle copertine (quella di “The Stage Ins” mostra il proprietario della mano che spunta dall’acqua in “The Stage Names”), è soprattutto di carattere tematico.
Quest’ultimo lavoro degli Okkervil River prosegue il viaggio metateatrale nel mondo della musica iniziato nel disco precedente che porta a galla il non molto roseo punto di vista dell’artista, o meglio, di Will Sheff. I testi dei due album sono colmi di rimandi e parallelismi: “Savannah Smiles” e l’intimistica “Starry Stairs”, ad esempio, presentano la storia di una groupie narrata prima attraverso la prospettiva del padre e poi attraverso quella della protagonista.
Si tratta, in realtà, di uno dei tanti personaggi ricorrenti nella discografia della band texana ed è presente anche come soggetto principale dell’incontro raccontato dalla rockstar in “Girl in port” e come voce narrante dello stesso episodio nella delicata ballata “Blue Tulip”.
Altra figura centrale è quella del fan, del suo modo di divinizzare la rockstar e di ricercare verità assolute in canzoni dal significato pressoché nullo. Esplicito, in questo senso, il testo di “Pop Lie” (che si ricollega perfettamente a quello di “Unless it’s kicks” del disco precedente):
“He’s the liar who lied in his pop song
The liar who lied in his pop song
And you’re lying when you sing along”
In “The Stage Ins” ritroviamo i tratti caratteristici della musica degli Okkervil River: le melodie orecchiabili e accattivanti guidate da uno stile vocale cadenzato ed intenso, le energiche chitarre, la batteria incalzante. Ma emergono anche elementi di distacco dal lavoro precedente, come la preponderanza delle testiere, i suoni più puliti e gli arrangiamenti più curati, che in realtà rendono il tutto più scorrevole e meno d’impatto rispetto a “The Stage Names” (e personalmente mi fanno pensare ad una caramella alla fragola, di quelle dure però; ad ogni modo penso che questo sia un problema mio e che dovrei iniziare ad assumere meno zuccheri).
Ma tornando agli Okkervil River: nonostante gli arrangiamenti più orecchiabili le atmosfere restano cupe e nostalgiche, cariche di disillusioni e solitudine, senza rinunciare però all’ironia (basti pensare alla tragicomica “Singer Songwriter”). I brani sono separati da tre intermezzi strumentali dal carattere più angosciato e malinconico e l’album si conclude con l’ennesimo richiamo a “The Stage Names”, il più esplicito. “Bruce Wayne Campbell Interviewed On The Roof Of The Chelsea Hotel, 1979” è una finta intervista alla popstar precocemente ed inaspettatamente dimenticata dal pubblico costruita sulla stessa linea strumentale, melodica e tematica di “John Allyn Smith Sails”.
Nel complesso si tratta di un’opera omogenea, coerente, ben strutturata e molto scorrevole, ma che non porta grandi novità e proprio per questo rischia di passare inosservata dopo “The Stage Names”, un capitolo in sé già esaustivo e senza bisogno di appendici.