Obake “Mutations”, recensione
Sono passati tre anni dalla mia infatuazione per questa nuova e sperimentale realtà chiamata Obake, arrivata oggi alla sua attesa seconda fatica, opera resa straordinaria da un impronta tecnico-espressiva che oltrepassa i più classici luoghi comuni. Infatti, dietro alla riuscita lavorazione di cover art, che sembra voler citare alcuni intuizioni General Surgery, si nasconde la genialità di Eraldo Bernocchi che, assieme a Fornasari e Balazs Pandi arriva a chiudere un magico quadrato con la sorprendente arte tecnico- esecutiva di Colin Edwin, estro mastro della bass line. Un valore aggiunto che dona magnetismo audace a strutture portanti ed allegoriche, che da tratteggi psichedelici ( Second death to foreg ) giungono ad intelaiature Kyuss (M), pronte ad invitare l’ascoltatore ad abbracciare inattesi percorsi post rock.
Il nuovo mondo di Obake ha inizio con Seven rotten globes furiosa traccia nera e disturbante. Il growl iniziale offre spazi claustrofobici alla teatralità espressiva, scomposta e interferente. Il sentiero sonoro ideale per le orecchie heavy, che sembra voler fondere con ardore ed accortezza tipizzazioni diversificate, in grado di arrivare ai confini del primo Steele, senza dimenticare criteri angoscianti, dipinti in maniera tutt’altro che assoluta. L’approccio privo di ancoraggi, è ben definito da Seth light , inquieta e “cultica”, pronta a mostrare approcci ossessivi e metodici, atti ad animare il cuore pulsante della traccia, mediante un minimale riffing nu metal, deliziosamente assorbito e trasformato dalle sensazioni arrugginite di un chiaro industrial malsano e catartico.
Il viatico oscuro e horrorifico, che si intuisce sin dalle prime battute, trova ampio è definito compimento in Transfiguration , il cui intro aberrante, offre il preambolo ad una struttura sonora cadenzata ed avvolgente. Un assenza d’aria che porta il ridondante suono stoner a varcare gli orizzonti del genere, grazie ad intarsi sonori espressivi e decadentisti. Una traccia perfetta, non solo grazie alla poliedricità evocativa di Lorenzo Esposito Fornasari, ma anche per merito di divergenze sonore, che portano in overlay un drum set perfetto nel suo essere. L’outro catacombale e rarefatto ridefinisce le eco espressive, trascinando l’ascoltatore verso un incubo filmico, da cui è difficile uscire, proprio come dimostra inquieta Thanatos . Fedele al proprio titolo, la traccia riveste l’espressività del black più estremo, per poi sciogliere gli indugi e valicare la distorsione per riportare il focus verso un crocevia tra stoner e diluizioni terminali, avvelenate da sentori noise ed aperture narrative. Il percorso si placa con l’intrusione libera di Burnt down , che sembra voler definire ulteriormente la perdita di orientamento, ritrovata poi sul finire da Infinite chain , composizione in grado di allontanare le espressività desertiche, non troppo distanti dal mondo post. Infatti, la chiusura onirica visionaria, arriva a scolpire il granito utilizzato per assimilare note dai disturbanti valori agorici, intercalati tra sentori bowiani e strutture distorte.
Un disco eclettico che, rispetto al suo predecessore, mostra un fisiologico miglioramento espressivo… d’altronde la Rare Noise Records non sembra lasciare nulla al caso.