Nuvola numero nove
A modesto parere dello scrivente un nuovo album di Samuele Bersani è un accadimento importante nel pop; nello specifico il suddetto scrivente considera Bersani il principale “cantautore” italiano dell’attualità, in forza di una discografia davvero ricchissima di grandi canzoni, con testi, musiche ed arrangiamenti che cercano se possibile di non accontentarsi.
A quattro anni dall’ultimo lavoro di inediti il nostro torna con quella che, in primis secondo lui stesso, rappresenta un’ulteriore evoluzione in un percorso di scrittura che il consueto scrivente trova -guarda un po’…- straordinario per continuità e coerenza, e ci consegna una sequenza di canzoni che rispetto al passato hanno un primo, evidente pregio di sintesi, mettendo insieme l’efficacia di alcune soluzioni dirette e lineari dei primi tempi con architetture più articolate che hanno via via arricchito il discorso musicale di questo artista.
C’è in questo ottimo lavoro la possibilità intrinsecamente popolare di cantare i brani normalmente, come accade con “la musica leggera”, ma anche il gusto per la soluzione armonica non banale, che ha costituito uno degli elementi importanti della produzione bersaniana man mano che la discografia avanzava e che in questo senso rende parte del repertorio piuttosto labirintica (e qui per qualcuno si tratta di pregio, per altri di difetto). Le complicazioni musicali si abbinavano peraltro spesso e volentieri con testi coerentemente arditi, in cui la soluzione non veniva offerta facile (e a volte non veniva proprio offerta); anche in questo senso “Nuvola numero nove” va più dritto al punto, racconta rinunciando talvolta al gioco di sostituzioni, all’immagine altra, al viaggio simbolico, attraverso quello che sembra esser stato proprio un lavoro di sottrazione, una semplificazione non di superficie ma strutturale, di cammino, anche in considerazione di quanto appunto succede pure sul piano musicale.
Gli arrangiamenti hanno sempre la venatura guitar-oriented che si deve alla collaborazione che prosegue con Tony Pujia, ma mantengono il merito di tenere le corde, acustiche o distorte che siano, in equilibrio col resto; anzi, nel mix concederei spesso qualche spazio e nitidezza in più al basso -specie ad esempio per evidenziarne le tensioni iniettate sull’ipnotica “Complimenti!”- ed alla batteria acustica. E’ un album che come gli altri non porterà a stanchezza, perché contiene canzoni che per suoni e parole non si fondano sul presente ma semmai lo usano, con misura. En e Xanax, singolo di lancio, è certamente il pezzo facile del lavoro (Samuele, qui si rubano libri dalle biblioteche e anni fa non si riportavano i titoli in videoteca: che problemi hai col prestito?), ma direi anche quello prevedibile, che in questo senso non rende giustizia al resto della tracklist, forte di almeno un altro paio di brani ben funzionanti in solitaria e compositivamente meno appoggiati sul consueto; prendete “Settimo cielo”, tirata e con un ritornello minuto e semplice che sa fare la differenza con un mare di pop degli ultimi anni, grazie anche ad un make-up chitarristico che brilla; prendete “Chiamami Napoleone”, cattiva o buona con chi merita una cosa o l’altra e che ti si stampa addosso dalla strofa in poi lungo passaggi di eleganza divertita -Lucio, penso io, ascolta, canticchia e sorride, approvando-; prendete “Ultima chance” per verificare come si possa fare ancora una ballata senza cascare per forza in quello che unicamente si sente ogni volta da tempo al posto di una canzone nuova. Se poi non state lì a cercare a tutti i costi l’hit single ma vi piace la forma canzone funzionante prendete pure “Spia polacca”, solidissima e con interventi di produzione susu voci e chitarre capaci di strutturare il brano come fossero uno tra i musicisti.
Non tutti i brani contengono i colpi di genio di cui i precedenti lavori erano carichi, ma il lavoro è compiuto, con un’organicità già alta in assoluto ma per certi versi fuori da questi tempi musicali di file sparsi, in cui ogni pezzo sta spesso accanto ad ogni altro senza un perché. Tutto fila dentro una playlist da sentire a sé, correttamente costruita tra sonorità sintetiche e umanità, con un bilanciamento tra personale e sociale che stavolta sembra stare più sulla prima parte che sulla seconda e che pure, guardando fuori, vede uscir cose molto belle. “D.A.M.S.”, per esempio; nell’intro deve un po’ tutto ad “Hallelujah”, ma ha tre grandi punti a favore: musicalmente sfoggia un trainante crescendo armonico nel ritornello carico di tensione (e in questo ci riporta a “Lato proibito”); nella struttura del testo, poi, da un lato consolida una specialità della casa che è il songwriting in tre quarti, con metriche che stanno nel pezzo in modo originale e ficcante, mentre nei contenuti riprende quell’intimo, profondo vivere le fasi difficili da dentro che abbiamo già ascoltato in “Sicuro precariato”.
Siamo alle solite, dentro un’abitudine a cui fa piacere non rassegnarsi cercandone la conferma ogni volta: Bersani fa album bellissimi e anche questo è con gli altri, per cui non perdetelo.