Norah Jones – The fall. Recensione.
Diciamolo pure: entrare nel mondo di Norah Jones è un po’ come essere invitati a visitare una galleria d’arte, alle pareti della quale si ha la fortuna di poter ammirare tele di rara bellezza.
Dopo ogni nuova “collezione di quadri” presentata da questa suadente cantante americana, è sempre risultata evidente la sua capacità di saper prendere il meglio dallo stile di quella precedente, introducendo – di volta in volta – solo lievi elementi di novità (più jazz il primo, più country il secondo, più blueseggiante il terzo). Il risultato finale è stato sempre lo stesso, vale a dire un apprezzamento piuttosto diffuso (quando non addirittura unanime), vista anche la oggettiva riconoscibilità delle sue pennellate.
Sostanzialmente, con questo quarto album, le cose non cambiano del tutto tanto che le sue ballate sono sempre là, pronte ad incantare chi ha deciso di varcare la soglia della mostra.
Tuttavia, è altrettanto evidente che in questa occasione i colori che ha deciso di usare sono diversi dal solito. In particolare il visitatore potrà notare che all’azzurro delicato del pianoforte, da sempre messo in risalto da Norah Jones, si è preferito dare un maggiore rilievo al grigio metallico delle chitarre elettriche, suonate spesso con effetti indefiniti, per non dire sporchi. Per capire meglio cosa intendiamo vi consigliamo di ascoltare il grezzo riverbero che fa da sfondo alla bellissima Even Though o che incornicia la rockeggiante Young Blood: ebbene, se ci dicessero che l’eclettico Peter Buck dei REM si è divertito a produrle (cosa che, sia chiaro, non è avvenuta affatto), non avremmo alcuna esitazione a crederci.
La domanda che a questo punto qualcuno potrebbe porsi è: pagherà o meno (in termini artistici e/o commerciali) questa mini svolta che ha spinto la Jones a percorrere strade meno battute (da evidenziare che non si tratta di una prima assoluta, considerando anche il mini album “New York City”, arricchito dalla magnifica chitarra di Peter Malick)?
Certamente ogni ascoltatore avrà la propria risposta, ma in generale riteniamo che il cambiamento (che, come vedrete, in It’s gonna be ed in Stuck si evidenzia in modo più marcato) è sempre da considerare un fatto positivo, soprattutto per chi ha già avuto grande successo con una formula consolidata. Ci piace cioè chi ha il coraggio di presentare delle novità tangibili, per lasciarle spensieratamente al (sempre temuto) giudizio dell’ascoltatore (pensiamo, al contrario, ad artisti molto apprezzati come Diana Krall, che tuttavia difficilmente mostrano svolte stilistiche di rilievo).
Sia chiaro, in questo interessante ed autunnale (di nome e di “suono”) The Fall ci sono comunque pezzi che ricalcano più fedelmente l’anima calda dell’artista (vedi la meravigliosa Back to Manhattan, e la dolce ed acustica December), così come, è altrettanto innegabile che non è sempre oro ciò che luccica (sia Tell yer Mama che la finale Man of the Hour ci sembrano decisamente i dipinti meno riusciti).
Una citazione finale vogliamo dedicarla alla canzone di apertura, Chasing Pirates (arrangiamento “poppeggiante” e, in un certo senso, quasi geniale), che merita un’attenzione particolare: era da tempo che non ci capitava di sentire qualcosa di così accattivante, tanto che vi consigliamo vivamente di metterla come colonna sonora nel momento in cui deciderete di addobbare l’albero di natale, aggiungendo così un po’ di sogno (musicale) a questo freddo finale d’autunno.