Niton “Niton”, recensione
Un pianeta offuscato dalla tecnologia, ridefinito su basi del tipico rumore bianco che i televisori abbracciano in assenza di segnale, un disturbo in pixel che ridefinisce una neo pangea sonora.
Così ci appare l’art work di copertina di questo nuovo Niton, opera terza di Zeno Gabaglio, che torna sulle nostre pagine dopo cinque anni di assenza. L’eclettico musicista ricompare a noi (sotto il baluardo della Pulver und asche Records) con un disco definito dall’autore stesso come una documentazione di un flusso di tempo e suono; una fatica nata dalle polveri delle Drone Night, performance di musica intuitiva e sperimentale, in cui vengono a confluire improvvisazione e silente distensione ascoltativa.
Partendo da queste inusuali premesse, si giunge al suono sorprendente ed avvolgente di Niton, ricreato attraverso due corpose e centrali suite complementate da un opener e da una chiusura di più gentile lettura. Il disco, tra tastiere, archi e oggettistica, si rilega in un ambiente proto elettronico, in cui vivono ragnatele noise, industrial e progressive, specchio acustico di una volontà visionaria ricercata da El Toxique e Xelius, compagni del un viaggio trasversale intrapreso da Gabaglio.
La nuova release, registrata durante la Drone Night n°4, presso le Officine Creative di Barasso, si apre con Tai Q che, assieme alla conclusiva ASNA, rappresenta il lato opposto del circuito narrato, in cui piccoli silenzi destati da parole tranciate, sembrano voler nascondere una concettualità fantascientifica, pronta a protende verso un approccio assolutamente sperimentale ed indecifrabile nel suo disturbante spazio-tempo. In particolare, proprio attraverso le note dell’opener, si ha l’opportunità di entrare in contatto con una galassia visionaria, in cui la sonorità viaggiano gradevolmente tra space noise e cripto psichedelia. Una traccia composita in cui l’armonia di un violino metodico e crescente si fa spazio attraverso le galleggianti insicurezze emotive del suo dna.
Con B’Done, prima vera suite di Niton, l’ascoltatore si erge poi su di una collina cupa ed inquieta, attraverso approcci tribali palesati dalle percussioni vacue ed angoscianti, regolate nell’intento di ipnotizzare una celebrazione ottenebrata dall’ignoto, qui abilmente deformata da inquieti sbilanciamenti, liberi di avvicinarsi al rumorismo ossessivo tipico della sezione ritmica. Senza soluzioni di continuità, si riparte con l’espressione creativa del proprio disagio psico-sociale all’interno di partitura free, tanto ragionata quanto risolutiva.
Non mancano poi né decise forme post rock atmosferico (K’lamp), né sensazioni d’ancestrale espressività, distribuita all’interno di atti minimali, in cui l’andamento progressivo e cardiaco ricorda gli spazi creativi dei primi Pink Floyd. La maturazione del disco avvolge con minor certezza il suo ascoltatore, pur raccogliendo intriganti distorsioni orientaleggianti, come a voler simulare una scacciata dei pensieri nefasti, per farsi cullare dall’espressività affascinante di un mondo parallelo, per poi aprirsi, dopo un interludio, verso piccoli sentori prog, mescolati e celati parzialmente da una ritrovata trepidazione espressiva.
Insomma… un disco che, per essere capito, deve essere ascoltato con attenzione, attraverso le immagini oniriche che certi suoni ricreano nella mente, mediante inconsuetudine e singolarità.