Nihil est Nuvole notturne, recensione
Nihil est…in intellectu quod privus non fuerit in sensu (Nella mente non c’è niente che non sia già stato nei sensi).
L’assioma peripatetico di San Tommaso rappresenta il modo migliore per definire in maniera nobile l’incipit della recensione ragionata di “Nuvole notturne”, debut album dei Nihil est.
La band milanese sembra voler scomodare quell’empirismo filosofico, che da Berkeley, arriva a reminiscenze Humiane, trasportando la concettualità della conoscenza umana, derivante semplicemente dall’esperienza. Nulla è conoscibile a prescindere dai sensi.
Proprio di sensi e sensazioni si nutre questo album delizioso, introdotto da Ciliegi, nella quale l’ensemble si mostra fedele all’antirazionalismo del ragionamento a priori, dando vita ad una schematicità compositiva prima di modelli. Un malinconico testo che balla su divergenti percezioni rupestri, ispirata al cantautorato fino atto a solcare tracce alternative, che destabilizzano l’ascoltatore. Ci si ritrova infatti intrappolati tra improvvisazioni elettroniche, narratrici di una metaforica composizione, che non può avere finale diverso da quel sole che cala dalla finestra.
La dolcezza del pianoforte continua il racconto dell’originale modus operandi di Vito Lobosco, il cui cantato “tirato” evidenzia una proprietà tecnica preparatoria davvero invidiabile. L’estasi di S Teresa infatti, ha in sé il diamante Degregoriano, in ossimoro limpidato dalle sporcature delle dita sulla sei corde, che introducono un interessante passaggio di tono. Le sonorità, libere come le mongolfiere della work art, aprono a perfetti passaggi liberatori in cui Silvia Mangiarotti e Marta Fornasari regalano con i propri archi uno dei momenti più alti del disco.
Se poi la titletrack sembra inizialmente essere fagocitata dall’eccessiva sinteticità sonora, più convincente appare la sua seconda frazione, forte di una semplice partitura sognante, che strizza l’occhio alla verde visuale di un mondo forse perso. Quella stessa vitalità compositiva, trova poi residenza nella buona capacità di arrangiamento che la band dimostra di possedere, come dimostra l’eclettico ermetismo di Fuoco .
Arrivati poi sulla media via ci si imbatte sulla strumentale Il desiderio in cui la tradizione cantautorale italiana domina sulle partiture distese di un epoca lontana, narrazione musicata similare ad alcuni testi filmici di Bertolucci.
Si volta pagina con Adrian , in cui si sfiora la sottile linea del minimalismo, atto a definire un climax ponderato, sfociante nella fisarmonica francese di Emiliano Bianchi. Un brano basato su di una sofferta linea vocale, che modula la definizione di diversità e disagio, interposta su i contrasti della bianca e candida neve con il lerciume del cemento.
Il colpo di coda è infine dato dai 10 minuti di Dieci minuti al telefono surrealistico viaggio nel nulla, suggello di esperienza musicale per un disco sussurrato, delicato ed incantevole, che mette a disposizione dell’ascoltatore una cultura musicale ed una sapienza artistica che, senza mezzi termini, riesce a fondere, infondere e confondere, anche attraverso la cover art di Nicolò Parsenziani, che con innovativa gradevolezza, racconta un booklet che profuma di musica.