Neil Young – Living with war – 2006
Non vi nascondo che l’ascolto di questo disco mi ha profondamente scosso e commosso.
Dei tre grandi vecchi del rock americano (Bob Dylan, Lou Reed e Neil Young, in rigoroso ordine alfabetico e di anzianità), quest’ultimo è decisamente il più prolifico (due dischi – LIVING WITH WAR e il precedente PRAIRIE WIND – in meno di un anno, più vari ‘rumours’ che si susseguono da anni sull’apertura degli immensi archivi younghiani con centinaia (!) di canzoni inedite).
Ma è anche il più presente, socialmente e civilmente parlando, se è vero che questo disco è quanto di più ‘politically not correct’ il cantautore canadese potesse produrre in tempi come questi.
Vi ho detto all’inizio che LIVING WITH WAR mi ha commosso: certo, musicalmente e liricamente.
Il buon Young, a sessant’anni suonati, se ne esce (nel suo ultradecennale schizofrenico rimbalzare da un disco country – com’era il precedente, piacevole e pacato nei temi e nelle atmosfere – ad un disco di rock duro e viceversa) con un album di canzoni a base di chitarre sfrenate e di basso e batteria galoppanti, il tutto condito da alcuni piacevoli sfregi stranianti di tromba e dal cantato consuetamente acido e stridulo del nostro.
E’ veramente ammirevole la strenua coerenza di quest’uomo che, scelto di fare del rock’n’roll la ragione della sua vita, continua a strapazzare la sua chitarra elettrica con la stessa irruenza e veemenza di trenta e più anni fa, ma così lontano dal parodiare se stesso come invece fanno altri personaggi privi di dignità come, per esempio, il duo Jagger-Richards.
Il disco non concede nulla allo spettacolo, è asciutto e severo come meritano i temi trattati, ma, al contempo, denota, nelle melodie e nelle armonie pur tipicamente younghiane, una freschezza di ispirazione e una convinzione di intenti che non possono essere solo frutto della solidità contrattuale dell’artista con la propria etichetta: c’è dell’altro.
C’è la voglia indomita di percorrere, con sguardo fiducioso ma teso, le strade infinite della musica popolare e, nel contempo, di indagare i meandri tortuosi del viaggio di un’umanità in perenne fuga da/alla ricerca di se stessa, umanità di cui Young è cantore disincantato e partecipe, allo stesso tempo, sin dai primi dischi con i Buffalo Springfield.
Ma veniamo al ‘cuore di tenebra’ di quest’album, le liriche.
Anzi, le crude grida di dolore, rabbia e sdegno che Neil Young rovescia su un’intera classe dirigente, quella americana, che, nella più inconcepibile e raccapricciante mistificazione della realtà che mai sia stata progettata su così vasta scala da uomini di potere nel nostro folle mondo, inganna da almeno cinque anni miliardi di persone, migliaia e migliaia delle quali tritura impassibile nell’assurdo ingranaggio della cosiddetta guerra preventiva che altro non è se non la disgustosa copertura di traffici finanziari e di arricchimenti patrimoniali inimmaginabili per noi poveri cristi.
Per noi poveri e stupidi cristi, impelagati da anni nelle esilaranti beghe di palazzo e nelle amene idiozie da stadio che ci ammanniscono i media governativi senza che la maggior parte di noi batta ciglio.
Per noi poveri e stupidi cristi, pronti a indignarci a comando di fronte all’ennesimo sbarco di extracomunitari in fuga da realtà che noi neanche ci sogneremmo nei nostri incubi più feroci, ma altrettanto pronti (sempre a comando) a fare spallucce (e zapping) di fronte all’ennesima strage di civili iracheni (o afgani o palestinesi) innocenti.
Per noi poveri e stupidi cristi che ancora crediamo alla favoletta che gli USA sono i paladini della libertà e che tutti coloro che, anche solo per un attimo, dissentono – per legittime motivazioni o convinzioni culturali –, fanno parte automaticamente dell’impero del male che mina alla base questa (finta) ‘democrazia americana’ fatta di petrolio e Mc Donalds, di coca cola e Microsoft, di Nike e telefilm ‘all american dream’!
Contro tutto questo e contro l’establishment che protegge e garantisce tutto questo si scaglia Neil Young con l’intero armamentario dialettico di cui dispone: dalla rabbia all’amarezza, dalla causticità all’invettiva, dallo scoramento alla speranza, le 10 canzoni di questo disco sono altrettanti missili (incruenti, per fortuna) che colpiscono (o dovrebbero… suggerisce il mio disincanto) al cuore la Casa Bianca e chi ci abita con tanta spudorata mancanza di ritegno e rispetto per coloro che lo hanno eletto, innanzitutto, e per noi, che mai lo abbiamo né lo avremmo mai eletto, eppure ce lo ritroviamo a comandare sulle nostre vite di poveri e stupidi cristi.
Il disco di Neil Young è tutto questo ed è per questo che mi commuove.
I momenti di più forte impatto emotivo sono “Living with war”, “The restless consumer”, “Flags of freedom”, “Let’s impeach the president” (ah, fosse vero!) e “Lookin’ for a leader”, ma, ripeto, è l’album intero a farsi sdegno che riempie (o dovrebbe…) le nostre coscienze di vituperio per George W. Bush e i suoi sodali.
Track-list dell’album:
01. After the garden
02. Living with war
03. The restless consumer
04. Shock and awe
05. Families
06. Flags of freedom
07. Let’s impeach the president
08. Lookin’ for a leader
09. Roger and out
10. America the beautiful