Myr “Days of convergence”, recensione
Nel mondo multimediale la concettualità della convergenza si allinea all’eliminazione della distinzione dei mezzi comunicativi, basata sull’accantonamento di regole artificiali imposte. Rappresenta una sorta di unione di strumenti, atti ad erogare informazioni.
Oggi, più che mai, questa (talvolta forzata) mescolanza aggregativa finisce per ricreare una società di massa confusiva e spesso destabilizzata da fulcri eterei e male assestati attorno ad un territorio fragile e farraginoso. Proprio da questa visione instabile ed allucinata di un (sur)reale mondo sembra partire il moto espressivo dei Myr, quintetto nostrano dedito ad una forma di progressive post metal dagli orizzonti molto ampi.
La band, attiva con la sua nuova pelle da poco meno di un lustro, offre una serie di sonorità qualitativamente preziose, capaci di andare ben oltre al semplice concetto di debut album, grazie ad un songwriting attento e curato, che ben si allinea ai numerosi cambi direzionali, controllati da ottime partiture.
Il disco, nascosto dietro alla sua cover art in root style del bravo Nathan Ramirez, racconta di 7 tracce per certi versi laboriose, ma alquanto creative, in grado di raccontare piccole narrazioni ottimizzate attorno alla mescolanza di sonorità, disperdendo senza forzature l’astrazione dell’uno per inoltrarsi in un meltin pot sonoro, che deve il suo essere a sviluppi diversificati. Un approccio sine frontiera dai lineamenti forti e coraggiosi, come dimostra Apprentice, il cui incipit stranito offre un impatto dai suoni non ben delineati, pronti ad introdurre un ottimo giro alla quattro corde, sino a cromatismi ed intuizioni vicini al new wave di Dave Gahan, tra riff heavy e acennati sentori prog.
Talvolta i lunghi brani offrono il terreno per giochi sonori che spaziano dallo space al tribal, donando l’impressione di inseguire un magico connubio tra Korn, Pink Floyd e Depeche Mode, la cui influenza torna sulle note di Land Art, la cui la profondità emotiva si sposa a spezie ambient, che evolvono in un tradizionale call and response arrivando poi ad un crescendo posato sulla linea evocativa ed onirica.
Se poi con Connections le tonalità progressive offrono al basso un incantevole overlay, è con December e To err is human che fuoriescono melodie floydiane al servizio del meltin pot sonoro che si percepisce nella melanconia tardiva, interposta tra sussurri black e riverberi inquieti, atti derivati da Diva, in cui la linea delle percussioni si veste di un attento colore psichedelico, esteso e diluito su di un climax breve e momentaneo che, come il disco in sé, riesce a definire rarefatte emozioni sonore di un disco da ascoltare e riascoltare.