Mutineers – David Gray – recensione cd
Premesso che amo tantissimo la voce e la musica di David Gray, ammetto, tuttavia, con altrettanta sincerità che il cantante gallese fino ad oggi aveva dato il meglio di sé nel periodo artistico che va dal capolavoro assoluto della sua carriera “White Ladder” (2000), fino a Life in slow motion (2005). Dopo di che, in effetti, si era un po’ perso – anche a livello commerciale – e aveva un forte bisogno di rilanciarsi con nuova musica che lasciasse di nuovo il segno. Per tentare il grande ritorno si è affidato quindi a un produttore come Andy Barlow che, secondo me, lo ha aiutato a ritrovare il meglio del suono che aveva caratterizzato quel periodo d’oro, sopra citato, come sempre basato sui soliti strumenti tradizionali, ma di nuovo conditi da piccole dosi di elettronica. Ma a parte il suono, che chiaramente è importante, quello che era mancato di più in “Draw the line” (2009) e soprattutto in “Foundling” (2010) era la qualità delle melodie, poco immediate e ancor meno accattivati.
Con “Mutineers”, almeno per la maggior parte delle tracce, la bellezza di un tempo torna spesso a galla, come per magia, tanto da permettermi di consigliarvi serenamente di immergervi nel mondo malinconico e introspettivo di David.
Le prime tre canzoni dell’album sono una più vellutata dell’altra a cominciare da “Back in the world” che, in riferimento a quanto detto fino ad ora, avrei battezzato come title track ed è forse una delle sue più belle uptempo di sempre. Il ritmo trascina l’ascoltatore, mentre il testo evidenzia come il cantautore si senta di nuovo vivo (“Like a the lift of a curse, got a whole different person inside my head…”).
Segue “As the crow flies” – primo brano di un’ideale trilogia dedicata agli uccelli, insieme a “Birds of high arctic” e alla finale “Gulls” – che parte lenta per poi accelerare piacevolmente. Qui Gray gioca con le parole basandosi sugli opposti ed in particolare sulla volontà di essere alcune volte una persona aperta, mentre altre preferirebbe chiudersi a riccio, senza lasciarsi guardare dentro. Adorabile poi “Mutineers”, vera e propria poesia che descrive come i nostri pensieri spesso sembrano ribellarsi a noi stessi, quando qualcosa dentro di noi vorrebbe impedirci di cambiare vita e scuoterci da ogni torpore o dipendenza.
Dopo due ballate “Beautiful agony” e “Last summer”, che necessitano più ascolti per essere apprezzate a pieno, arriva “Snow in Vegas”, il pezzo che aspettavo da quasi due lustri. La chitarra acustica ed il piano, iniziano da sole prendendoti dolcemente per mano fino a raggiungere presto l’incedere del tempo della batteria. Il viaggio estetico finirà in un crescendo ascensionale che ti avvolgerà totalmente lasciandoti senza parole. Ma di parole nel brano, profondo e intenso, il cantautore non ne risparmia una per rivolgersi alla sua lei e dirle quanto gli manchi (“where you been so long, i’ve missed you like a river baby”) rassicurandola che lui sarà sempre là ad attenderla (“any little thing you’re needing – all you do is call”).
Gli archi della già citata “Birds of high arctic” lasciano il segno tanto quanto il piano e le tastiere di “Girl like you” a completare un disco emozionante e nient’affatto banale. Non ci rimane che sperare che David Gray non perda più l’ispirazione e presenti sempre materiale di buon livello come ha fatto con quest’ultima prova.
PS: spendo, come spesso faccio quando lo meritano, due parole a favore dell’edizione deluxe. La chicca qui è rappresentata da ben due bonus disc che riportano fedelmente un live dell’artista a Londra. Ebbene a mio avviso basterebbero le versioni (semi acustiche) di “Babylon” e “Flame turns blue” per giustificare l’ulteriore (tra l’altro minimo) esborso, rispetto all’edizione standard.