Movin K “Waitin’ 4 the Dawn”, recensione
Tornano i Movin’k con quattordici tracce sognanti, spigolose e narrative, pronte a spiegare il proprio super-io verso un percorso diviso teatralmente in tre atti: Caduta, Viaggio e Liberazione. Un’idea fondata su strutturazioni espressive libere da ogni ritualismo e prive di reale fulcro, ma strettamente legate alla più classica dicotomia luce-oscurità, mai esplicitata dalle sensazioni espressive che emergono tralla tracklist.
Infatti, con l’introduttiva In the silence of the night si parte per un viaggio etereo delineato da impalature antiche dai rimandi evocativi e leggiadri, in grado di modulare un trampolino di lancio verso l’anima sintetica di Against, abito decorato da striature elettroniche, qui dilatate su distorsioni distopiche. Un mondo privo di appigli reali e definiti, perfetto nel destabilizzare l’ascoltatore e trainarlo con sé in una realtà sonora originale e indefinita che porta in dote passaggi heavy, luci seventies e note fuori sistema. La traccia, interessante e piacevolmente arrangiata, mostra, proprio come nella più riuscita cover art, l’animo di un quintetto in “costante movimento spirituale, emozionale e fisico”. Un sentiero reso delicato dalla vocalità femminea di Maria Rita Briganti, alter ego delle variabili timbriche di Francesco “k” Epiro, deus ex machina di questo progetto giunto alla quarta fatica. La band, proponendo un’accorta mescolanza di altronica e desolazioni futuristiche (Walk), accoglie immagini progressive e pinkfoydiane e, nonostante la perfettibilità linguistica, offre una piacevolezza estetica nutrita da apici espressivi (Beyond) e ricami Meat Loaf, che emergono dai riusciti passaggi di Some trains never come, figlia legittima dei primissimi anni’80. La track, tra citazionismi e deja ecù, sfonda la barriera della piacevolezza donando un sapore easy listening che volge lo sguardo verso stilemi radiofonici vicini (ora esagero…) a Mika.
Il disco prosegue tra i tribalismi di All is quiet in my heart, in cui liricità nordica si unisce a disegni evocativi e ad un buon riffing, sottile trait d’union pronto a slegare la tracklist dalla banalità, che di certo non trova terreno fertile né nell’animo vintage di Find your way né tantomeno sullo spartito di The dream is over, straordinario e alternativo atto di chiusura di un disco che cela tonalità variegate, legate imprescindibilmente ad una anelata liberazione dal proprio lato nascosto.