Mos Def – The Ecstatic recensione
Se nella maggior parte dei generi musicali la sperimentazione ha portato trasformazioni divenute imprescindibili dando un nuovo significato alla struttura del suono, nell’Hip-Hop si potrebbe fare il discorso inverso. Tutti coloro che hanno tentato un approccio alternativo, nel migliore dei casi si sono quasi completamente allontanati dalla natura del genere oppure hanno creato ibridi senza molto senso. Nell’Hip-Hop l’evoluzione migliore è sempre stata quella legata alle interpretazioni creative dello stile classico, finalizzate in spunti lirici o in campionamenti rari ed immaginifici. Insomma, la contaminazione con altri generi ha spesso trascinato l’Hip-Hop lontano dai suoi ascoltatori e ne ha raramente conquistati altri (qualche eccezione illuminante ma di un’altra epoca si può trovare nelle collaborazioni Public Enemy-Anthrax, nei primi Beastie Boys o nell’approccio dei Cypress Hill di “Black Sunday”). Lo sa bene anche Mos Def, il cui superbo esordio “Black On Both Sides” trasudante di poetica e di sensibilità nei testi e con l’aiuto di eccellente produzione, lasciava presagire un roseo futuro per quello che sembrava essere uno dei migliori mc’s della sua generazione.
Le ambizioni dalle larghe vedute di Mos Def hanno però portato il rapper di Brooklyn a virare verso una missione nobile ma di difficile realizzazione: quella di condensare in un solo lavoro la gran parte dei generi musicali afro-americani, in segno di rivalsa verso la trasformazione e l’approprio svolto dalla cultura bianca occidentale. Per l’occasione sono stati addirittura chiamati il fior fiore dei musicisti neri di diverse epoche, da Bernie Worell dei Funkadelic passando per Shuggie Otis fino a Doug Wimbish dei Living Colour, in modo da formare una band hard rock/funk/rap nominata Black Jack Johnson. Ma l’album in questione, “The New Danger” alla fine è rimasto solo un potenziale capolavoro, risultando nè carne nè pesce e frenato dalle sue troppe deviazioni.
A questo punto, dopo un periodo in cui Mos Def era sembrato virare decisamente verso la carriera d’attore con prevegoli risultati (“The Italian Job”, “Be Kind Rewind”), ecco invece che con “The Ecstatic” sembra voler riprendere il discorso interrotto ai suoi esordi. E fortunatamente gli anni trascorsi non sembrano aver arruginito le sue abilità di rapper e quel senso poetico ed esoterico nei suoi testi (e nel modo di interpretarli) è ancora lì a rendere unico questo poliedrico artista newyorkese.
L’introduzione del disco è nei due minuti di “Supermagic” il cui suono guidato da una chitarrina arabeggiante si erge a tappeto al verso aggressivo di Mos Def intervallato da campionamenti di discorsi politici e canti medio-orientali in un perfetto stile eclettico. L’atmosfera ormai c’è tutta e si diffonde nell’aria con il primo pezzo “vero”, “Twilite Speedball”: testo astratto e ben rappato, accompagnato da una pregevole base minimalista dove tocchi di xilofono si alternano a campionamenti di trombone. Ma è “Auditorium” ad aprire le orecchie dell’ascoltatore, non solo per l’azzecatissima base notturna ma soprattutto per le parti vocali: Mos Def detta legge al microfono come ci aveva abitutato a fare, con un verso lunghissimo di grande tecnica e stupefacente intensità ed il bello è che quando sembra che tutto stia finendo, irrompe al microfono uno dei pochi ospiti dell’album, il venerabile Slick Rick il cui inconfondibile stile ha ancora la capacità di conquistare e di far venire i brividi.
Nell’album ci sono parecchi pezzi sotto i due minuti nei quali Mos Def risulta spesso in forma supportato da una produzione mai sopra le righe, adeguata e di buona fattura, come in “Wahid” ed in “Priority”. Il primo singolo “Quite Dog Bites Hard” si basa su percussioni africane e su un ritmo tambureggiante ma molto discreto che accompagna in crescendo il rap veloce ed affilato di un Mos Def che sembra convincere sempre di più. Più canonico, almeno musicalmente è “Life in Marvelous Times” dove in evidenza è il peso politico di un testo piuttosto graffiante, testimone illustre della profondità dell’artista. La critica si trasforma in sarcasmo in “The Embassy”, traccia che apre un breve momento soft dovuto alle chiare influenze jazz-soul della musica ribadite anche nella successiva “No Hay Nada Mas”, rappata in spagnolo ed anche in parte nella ritmata “Pistola”, intelligente riflessione che mette in parallelo amore e guerra utilizzando il problema delle armi di fuoco come metaforica linea guida.. Ne viene fuori uno dei momenti più emozionanti dell’ascolto e non solo per chi è in grado di capire l’inglese. Con “Pretty Dancer” si viene trascinati nel più classico Hip-Hop grazie ad una base che recupera elementi di funk, seppur del tipo più pulito e raffinato. Questo è anche l’ultimo pezzo in cui Mos Def sembra dare priorità al suo flow perchè la parte finale dell’album tende molto di più al soul, anche nelle parti vocali che a volte ricordano suoi vecchi pezzi riusciti come “Umi Says” ma in altre si avvicinano a banalità moderne alla Kanye West. Di queste ultime tracce si mettono in evidenza “Revelations” con il suo suono afro-beat ed “History” in cui il vecchio partner nei Black Star, Talib Kweli, torna al microfono. Meno efficaci “Workers Comp” (nonostante l’ottimo testo che affronta i problemi del mondo del lavoro) e “Roses” (praticamente un R&B con Mos Def relegato ai margini). La finale “Casa Bey” è quasi priva di parti vocali, esula un pò dal contesto ma è senza dubbio di pregevole fattura per chi ama suoni di latin jazz e smooth funk-soul.
Nonostante alcune indecisioni dovute ad un’ecletticità non sempre buona consigliera, Mos Def con “The Ecstatic” dimostra che dando il massimo al microfono può essere ancora uno dei migliori interpreti dell’Hip-Hop contemporaneo e sua visione dell’arte, rimanendo in certi schemi, sa regalare grandi emozioni ed elevare la classicità del suono ad altissimi livelli. Bentornato!