Mistaking Monks “Mantic”, recensione
Mistaking Monks è il nuovo folle side project di Mr. Iriondo, questa volta alle prese con sonorità noise, semplicemente armate di pelli, sax, mahai metack, taisho koto ed elettronica. La nuova release arriva (ovviamente) dall’officina Phonometak Labs, pertanto, viste le premesse, non potete che attendervi un mondo libero da ogni schema.
Il disco, felicemente ispirato dalle parole di Giorgio Agamben, riprende il brano filosoficoChe cosa è il contemporaneo? e racchiude una serie di infinite e sconvolte analisi equilibrate, per le quali questa concettualità dell’oggi pone la triade Calcagnile-Iriondo-Mimmo al punto di partenza da cui ha inizio il viaggio tra le 13 composizioni.
Tracce sonore in cui ritroviamo la tenebra filologica accanto ad un attento sguardo sul nostro tempo ed un ampio coraggio compositivo, che nella sua totale disomogeneità determina un infinito numero di elementi incastrati tra loro come un artistico papier collage.
L’insania impavida e la forza eterea dell’osare è ben rappresentata dalla cover art stessa, stranita e metaforica, tanto quanto l’arte filmica del Blow up di Antonioni, in cui tutto poteva rappresentare epifanie occulte. Da questo simbolismo espositivo avanzano le note per palati fini delle iniziatiche micro-composizioni di questo Mantic, aperto dalla sensazione graffiata e disorientante di Shape of things to come, la cui visuale è ampliata dalla seguente Landscape and its meaning, posata e descrittiva tanto da rallentare in maniera naturale il sassofono soprano, appoggiato su di un sottile tappeto scenografico in cui in drum set si fonde ad un inatteso e cupo fade out terminale.
I movimenti improvvisi e disaccordi di So close so far, aprono la strada alla lunga composizione Tale to be told, una vera e propria suite, in cui l’urgenza narrativa vive di stranite e varianti sensazioni. Si percepisce una sorta di controllato isterismo noise al fianco dello sviluppo orrorifico, specchio della nostra quotidianità, resa blandamente surreale dai momenti space.
Gli accenni improvvisi si appoggiano inoltre agli accenti sonori, capaci di alternare inquiete note sepolcrali, alle luci naturalistiche ben costruite alle pendici di un inevitabile incontro tra classicismo ed avanguardia. Una serie di infinite sensazioni amalgamate in una storia fatta di molteplici immagini ipnagogiche, spesso sfocate e lisergiche.
A bilanciare il costrutto della traccia ci pensa poi la brevità di Antenna revelation e la strutturazione aperta di Lone cruiser, per poi dipanarsi sulle direzioni più composte di Multiple, che, pur lasciando spazio alle armonie, non manca di accenni rumoristici, proprio come accade nella titletrack. Infatti, proprio in quest’ultima traccia, il climatico sound iniziale forma un principio di attesa misterica, che si evolve verso le sonorità chiare del sax, inquinato da un’industriale attitudine sonica.
A chiudere questo nuovo capitolo Phonometak sono poi le strutture sine compromissione espresse dal noise temperato di Time and its palindrome e la tempesta di vento mostrata in The longing streams, traccia di chiusura semplicemente in grado di aprire definitivamente il nostro orecchio a suoni arditi, specchi opachi di una pittura surrealistica e al contempo futuristica.
Un disco pertanto dinamico (e di nicchia), percepito al meglio con i molti ascolti, che permetteranno all’ascoltatore di definire con chiarezza la strada maestra caratterizzata da infinite sfaccettature legate alla contemporaneità.