Megadeth” Super Collider”, recensione

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Era dai tempi di Youthanasia che un album dei Megadeth non si ritrovava così in alto nella Billboard200, classifica d’oltreoceano che si basa unicamente sulle vendite effettuate negli Stati Uniti.

Supercollider è Il quattordicesimo album della band statunitense che, per la prima volta, si offre al proprio pubblico sotto il marchio Tradecraft Records, label creata dallo stesso Mustaine, anima e corpo dell’ensemble heavy thrash. Infatti, dopo al scadenza contrattuale con la Roadrunner Records la decisione è apparsa ai più come un fisiologico cambiamento necessario per dare linfa alle proprie radici.

Ancora una volta la band si appoggia a rimandi socio politici ed iperscientifici, dando spazio al concetto di Supercollider, ultimamente salito alla ribalta delle cronache mondiali. La cover medesima offre una tecnocratica ed inquieta immagine elaborata del tracciatore in silicio del CERN, nei cui riflessi potrete ritrovare i ganci di Vic Rattlehead.
Il disco, in commercio anche in una splendida versione deluxe, regala ai propri indefessi fan 11 tracce su cui discorrere, soprattutto per uno sviluppo eccessivamente mainstream, che perde i colori del suo insieme, divergendo più verso un rock pesante che non verso le spinte speed thrash che gli estimatori di prima data forse avrebbero voluto. Il dna di questa nuova fatica appare piacevole solo a tratti, mostrandosi (ahimè) troppo destabilizzante e scarsamente sviluppato. Infatti gli episodi poco convincenti si radicano attorno ad una spinta sonora impostata su binari semplicistici, all’interno dei quali viaggiano le idee, spesso e volentieri perse in maniera sorprendente.

Ad aprire l’opera nuova della band è Kingmaker il cui cupo suono della quattro corde anticipa in maniera tipica un riff ben assestato e la tipica timbrica vocale di Mustaine che, almeno in incipit, sembra raccontare un suono fresco e diretto che si sgretola, come spesso accadrà in corso d’opera, sulle semplici armonie del chorus. L’impercettibile chiusura acustica ci porta poi nei call and response della titletrack, il cui hard rock poco convincente si bilancia all’ottimo approccio sonoro di Built of war. La traccia dall’approccio epico, risulta disorientante e funzionale all’unisono con il suo piacevole e riuscito controtempo.

Se poi con Beginning of sorrow e soprattutto Burn! gli animi si placano improvvisamente è con Dance in rain che arriviamo a saturare la gola. Note nere e ponderate si affiancano ad una linea di cantato che lambisce lo sponken word e che ci trascina in maniera persuasiva in un mondo inquieto, raccontato tra un buon lavoro alle pelli ed interludi d’archi, capaci di acquisire nel sensibile mutamento agogico le sensazioni dell’ascoltatore, finalmente trascinato dentro una traccia piena. L’ottimo cambio di velocità nella seconda parte ci presenta di certo uno tra i brani migliori del platter, proprio come dimostra il climax chitarristico che sembra uscire da Suspended sentenced dei Satan.

Non mancano infine gli influssi maideniani diOff the edge , molto vicina alle sonorità Powerslave, né mancano insospettabili sperimentazioni che arrivano ad una linea di confine improvvisa. Infatti The blackest Crow appare interposta tra il suono di un banjo ed un violino in southern rock style, mentre i dialoghi chiaramente blues di Don’t turn your back ci restituiscono linee sorprendenti e un ottimo lavoro di Shawn Drover, ferrato nell’introdurre un convincente guitar solo, che assieme agli sviluppi chitarristici esposti in Cold Sweat dei Thin Lizzy, ci chiarificano che i Megadeth sono vivi e vegeni..ma forse confusi.

1. Kingmaker
2. Super Collider
3. Burn!
4. Built for War
5. Off the Edge
6. Dance in the Rain
7. Beginning of Sorrow
8. The Blackest Crow
9. Forget to Remember
10. Don’t Turn Your Back
11. Cold Sweat – 3:10 (Phil Lynott, John Sykes) – cover dei Thin Lizzy