Matthew Shipp – Harmony and abyss. Recensione dell’album.
Ci sono artisti a cui le etichette non piacciono. Miles Davis era uno di questi, quando lo criticavano nella sua fase elettrica rispondeva che la sua era musica, non si poteva dare un’altra definizione.
E Miles Davis la storia della musica l’ha cambiata più di una volta. Nel frattempo il jazz ha avuto le sue vicissitudini, i suoi nuovi protagonisti, tanti bravi interpreti ma personaggi in grado di cambiare la musica, quelli pochi.
Allora, ecco a voi Matthew Shipp. Non proprio un novello delle scene, i suoi esordi risalgono alla fine degli anni 80, con dedizione all’avanguardia ispirata da Cecil Taylor, il pianista che più Shipp ricorda, col suo stile eclettico ed impeccabile. Ma quando Matthew mette mano ai tasti, non ha davanti un semplice pianoforte ma un vero e proprio viatico per creare, costruire, sconvolgere e coinvolgere.
Nella sua carriera si contano diversi progetti; dischi solisti, duetti con archi, la collaborazione con il gruppo Hip-Hop sperimentale Anti-Pop Consortium.
Con l’etichetta Thirsty Ear e le sue “Blue Series” (una serie di album con nuove sonorità di matrice jazz) ha forse intrapreso il filone più geniale della sua evoluzione artistica trovando su ogni disco nuovi spunti di vario genere. Ennesimo esempio è “Harmony And Abyss”, lavoro di assoluta eleganza e di sopraffina complessità.
L’impostazione sonora è molto legata all’elettronica e al campionamento, un apparente allontanamento dal jazz più classico. Questo è, infatti, subito percepibile nei due pezzi di apertura, “Ion” e “New Id”, in cui il piano di Shipp fa quasi da accompagnamento ad un groove tirato e coinvolgente. Ma chi pensava che il tutto fosse giocato su una certa orecchiabilità è subito preso in contropiede dai due pezzi successivi, “3 in 1”, una sorta di lento interludio dai toni bassi che fa da apripista a “Virgin Complex”, inquietante ed affascinante composizione che estrae dal corpo l’animo più cupo.
Allora, visto che magari ci si aspettava a questo punto qualcosa di spaziale, ecco invece “Galaxy 105”, il pezzo che più si avvicina ad un jazz più convenzionale dove spiccano i suoi collaboratori, William Parker al basso e Gerald Cleaver alla batteria. Siamo a metà disco e dal sound piuttosto acustico si passa ai macabri effetti speciali e ai rumori di fondo di “String Theory”.
Armonia ed abisso, appunto.
Ce ne sarebbe già abbastanza da essere ammaliati, ma la vera magia deve ancora venire. Si tratta di “Blood 2 The Brain”, un’incredibile fusione di elettronica e jazz che stupisce ogni secondo che passa per la sua naturalezza, per la sua intensità. Le ultime tre tracce sono le meno accessibili, fatte di millimetriche sintonie tra i vari strumenti, elettronici e non, spesso prive di melodia ma non per questo incapaci di interessare e di rapire. E ad ogni ascolto si percepirà qualcosa di nuovo, si noterà un particolare in più. E ci si chiederà dove ci ha portato Matthew Shipp, uno a cui le etichette proprio non piacciono.