Marvin Gaye – Here My Dear recensione.
La storia della musica è fatta di tanti episodi che spesso con la musica stessa centrano ben poco. Ma sono proprio avvenimenti esterni, personali, talvolta dolorosi, che spingono l’artista ad esprimere tutto il proprio tormento tramite la creatività, utilizzando la musica come uno sfogo, come l’unico modo per comunicare.
In questo senso la carriera di Marvin Gaye è una parabola fatta di curve che vanno su e giù ma sempre o quasi di pari passo con il “mood” del soulman per eccellenza.
La svolta avvenne nei primi anni 70, quando Marvin si stufò di essere utilizzato come icona dalla crescente Motown e decise di smettere di essere solo un grande interprete di classici R&B per cominciare a comporre la sua musica, andando in più di un’occasione contro un’industria che lo voleva sempre uguale ai suoi esordi. Ma ormai la sua influenza sulla Motown era imponente e quindi era inevitabile che lo lasciassero fare di testa sua. E meno male perchè questa parte della sua carriera è piena di capolavori come “Let’s Get It On” e “What’s Going On”, per citare i più famosi ed in generale i lavori degli anni 70 sono quelli che hanno contribuito a definire la musica soul da quei giorni ad oggi.
Nel 1978 Marvin Gaye era un uomo sfinito emotivamente e fisicamente, in preda a paranoie dovute alla sua dipendenza da droghe e ad una depressione scaturita dalla dolorosa separazione con la moglie Anna Gordy, sorella del boss della Motown, il noto Barry. Proprio quest’ultimo evento ha segnato in maniera decisiva l’esistenza di “Here, My Dear”. Marvin era stato obbligato legalmente a devolvere i compensi del suo prossimo disco alla moglie per il divorzio ed inizialmente la sua idea era quella di incidere qualcosa in fretta e furia, tanto per non sfuggire alla condanna. Ma all’improvviso, nella sua mente qualcosa è scattato e gli ha fatto pensare che quell’album sarebbe stato un “concept” sulla storia d’amore da lui vissuta ed appena finita.
Ecco quindi un vero e proprio viaggio attraverso l’iniziale gioia e poi il dolore, la gelosia, l’amarezza, i pensieri. Una sfida a tutti, forse prima di tutto a se stesso perchè affrontare certi concetti era oltre la sua immaginazione, ma anche al mondo intero, al periodo totalmente preso dai suoni facili della disco e dalla spensieratezza. Non era certo quello che ci si aspettava da un’artista soul in quel momento. Invece ecco un disco che mette insieme ballate classiche, funk immaginifico, jazz, assoli di organo, con il risultato di un’atmosfera mistica e senza tempo.
La prima, breve parte del lavoro è quella delle memorie positive, dell’inizio dell’amore, tutto rinchiuso nell’introduzione parlata “Here, My Dear” e nella lenta e dolcissima “I Met A Little Girl”. Ma l’amarezza prende subito il sopravvento con un brano da brivido, l’incredibile “When Did You Stop Loving Me, When Did I Stop Loving You”, dove la voce di Marvin diventa un veicolo per condensare tutti i sentimenti ed i ricordi in un crescendo di elegante raffinatezza ma graffiante come pochi.
Un insistente fiato rincorre la parte vocale e la accompagna dall’inizio alla fine, insieme ad un ritmo medio-alto che non fa altro che mettere in evidenza le emozioni che il pezzo che sa regalare e che non può che essere un simbolo per chiunque sia in vena di ricordi di amori passati.
A seguire c’è “Anger”, rabbia, e se il titolo suggerisce facilmente il sentimento in questo caso interpretato, è la parte musicale che colpisce in questo caso. Un funky soul eseguito con maestria, con attacco repentino, tra batteria, basso ed organo che picchiano e sono ammorbiditi dal magico falsetto di Marvin, spesso assecondandolo fino a farlo diventare anch’esso uno strumento, una parte di questo funky groove.
Di gran lusso è il soul spaziale della successiva “Is That Enough?”, con partenza ultra-ipnotica che si fonde presto con il ritmo lento dai toni nettamente jazzati quasi a ricordo della fusion esoterica di Lonnie Liston Smith. Un pezzo malinconico che sembra quasi una jam grazie anche ai suoi assoli di fiato nel finale. Malinconia che non cessa di filtrare nella filosofica “Everybody Needs Love”, il cui arrangiamento è assolutamente da brividi, un prototipo per ogni ballad soul che si rispetti.
Il ritmo cambia di nuovo con “Time To Get It Together”, di nuovo funk di squisito livello, con la parola “time” ripetuta di continuo e poco altro testo, ad evidenziare l’intenzione di Marvin di far uscir fuori non solo i suoi sentimenti ma anche le sue qualità di musicista. Il giro di basso alla Larry Graham guida il tutto, seguito da percussioni e fiati, per quello che è uno dei migliori pezzi funk di fine anni 70. Come a voler alternare tormenti ed emozioni, al pezzo ritmato si alterna di nuovo uno struggente lento, “Sparrow” che sembra nuovamente aggrapparsi ai ricordi ed alle speranze affidandosi all’irruenza dei fiati che ad un certo punto sfiorano addirittura punte di free-jazz, un contrasto che riempie ancor di più d’intensità il messaggio vocale e musicale. “Anna’s Song” è di sicuro il pezzo più intimista dell’album, probabilmente anche il più classico, in puro stile Marvin Gaye che sembra qui voler dedicare alla sua ex-moglie l’ultimo pensiero positivo.
Il viaggio dell’album potrebbe essere riassunto da “A Funky Space Reincarnation”, otto minuti in cui soul, funk, jazz e persino un tocco di psichedelia si incontrano, e Marvin utilizza la musica per esorcizzare i suoi demoni, discostandosi apparentemente dal concetto dell’album ma rinforzandone in realtà tutti i punti. Il lavoro si chiude con “You Can Leave But It’s Going To Cost You”, un altro funky soul molto tirato che affronta di nuovo la storia d’amore rivolgendosi direttamente ad Anna, ed infine con la grooveggiante “Falling In Love Again”, che mescola speranza e paura e ci lascia ancora una volta di stucco per il sapiente mix musica-parole, tutto da ascoltare, assorbire, persino ballare.
“Here, My Dear” è senza dubbio il lavoro più complicato di Marvin Gaye, non possiede pezzi di semplice ascolto, è più lungo di altri suoi dischi, si rivolge sicuramente ad un pubblico maturo, non solo d’età ma soprattutto musicalmente. Ma è proprio questa complessità a far da veicolo alla grande passione ed alla profondità dell’album, dal quale è impossibile non lasciarsi trasportare ed essere quasi trasferiti nella realtà che Marvin ci ha raccontato. Quasi troppo audace per i tempi in cui uscì, “Here, My Dear” è diventato nel tempo fonte d’ispirazione per tanti artisti contemporanei, da Prince a D’Angelo, da i Jodeci a Maxwell. Il soul non sarebbe lo stesso senza “Here, My Dear” e i brividi che un suo attento ascolto ci regala rimarrano sulla pelle alla lungo.