Mali – viaggio nella musica
Un weekend a Bamako (Seconda parte)
E’ sabato. Ci svegliamo ancora con il palco dell’Hogon davanti agli occhi, ma è giorno, anche se il cortile di Bajalan 3 è ancora silenzioso. Solo Jimmy è già al lavoro, come tutte le mattine, e dalla mia stanza lo sento che si esercita assieme a un altro chitarrista e a una giovane cantante. Durante gli anni ’70 Jimmy ha suonato la chitarra ritmica nei mitici Super Biton de Segou, ma oggi tutti e tre fanno parte del gruppo di Babani Kone, una brava djeli che in Mali riscuote un discreto successo con la sua mande dance patinata e un po’ commerciale.
Le strade del quartiere stanno appena iniziando ad animarsi. Come tutte le mattine, Nyame, la parrucchiera che lavora nella bottega accanto al portone di casa, ci porta l’acqua bollente per il thè, sfoggiando una deliziosa nuova pettinatura fatta di corti e aggraziati dreadlocks che puntano in tutte le direzioni. Molte sono le donne che vengono a farsi i capelli, soprattutto il giovedì o il venerdì, prima che arrivi il fine settimana. I capelli crespi si prestano ad essere lavorati, intrecciati, allisciati, allungati e scolpiti. E’ incredibile la varietà di pettinature possibili, e alla bottega di Nyame il via vai delle donne giovani e belle allieta tutte le ore del giorno, a cominciare dal mattino presto. Gli uomini invece tengono quasi tutti i capelli cortissimi, tagliandoli con la macchinetta o con il rasoio, in casa o presso banchetti che fanno questo mestiere.
C’è da stupirsi della quantità di parrucchieri che lavorano a Bamako, e se non ci si accorgesse quanto le donne africane tengano ai loro capelli ci si chiederebbe come fanno a lavorare tutti. Tra le botteghe, soltanto quelle dei sarti sono altrettanto numerose. Passandoci accanto le si riconosce subito, le botteghe dei sarti, dei parrucchieri e i saloni di bellezza, per le loro insegne, dipinte a mano e coloratissime, raffiguranti vestiti dai tagli eleganti e complicate acconciature, autentici esempi di naif africano contemporaneo. Per farvene una idea, andate su un qualsiasi motore di ricerca e digitate le parole barbershop, sign e african, oppure date un’occhiata al sito di Indigo Arts (www.indigoarts.com/gallery_barbersign_main.html), e non vi stupite se vi viene voglia di iniziare a collezionarle.
Mentre inzuppiamo nel thè una fetta di torta simile a un pan di spagna rinsecchito, comprata ad una bancarella il giorno prima, arriva a bottega l’assistente di Nyame. Avrà 20 anni, e grazie alle sue gambe lunghissime che ne determinano le proprorzioni è più bella da lontano che da vicino. Nel frattempo ci ha raggiunto anche Ibu, il nostro prezioso amico del Gambia che vive con noi a Bajalan 3, il quale ci informa che nel pomeriggio si festeggerà il compleanno della figlia di Mamadou e Safi, che compie un anno. Non abbiamo ancora una idea chiara di come qui si svolga una festa, ma accanto all’ingresso di Nyame Coiffure, sul bordo del canale di scarico, vediamo accatastate in pile una gran quantità di sedie di metallo.
Ibu Suso viene chiamato da tutti El Hadji, ed è cugino di Toumani. Ha 40 anni, è vissuto 12 anni a Milano, dove sta cercando di tornare, e parla perfettamente l’italiano. Durante il nostro soggiorno è con lui che abbiamo girato Bamako, è lui che ci ha accompagnato nelle case dei musicisti, che ci ha aiutato a capire, individuare e decodificare i significati non solo delle parole e degli eventi, ma anche delle sfumature delle cose che accadono qui, consentendoci di ridurre la distanza tra noi e una società, una cultura e un sistema simbolico di riferimento che ci erano estranei. Grazie a Ibu siamo riusciti ad entrare un po’ più dentro all’Africa che amiamo.
Finito il thè lasciamo Bajalan 3 che si sveglia e andiamo a sbrigare qualche faccenda in centro. Al nostro ritorno, dopo pranzo, le sedie di ferro sono state già sistemate in mezzo alla strada, un po’ spostate rispetto a casa, a formare un grande cerchio. Come abbiamo avuto modo di vedere, il sabato e la domenica le feste che si tengono in strada, soprattutto matrimoni, non si contano. Contemporaneamente alla nostra se ne svolgevano altre due soltanto nelle vie adiacenti. Diversamente dalle altre però, il nostro allestimento non prevedeva alcun tendone per riparare i partecipanti dal sole, probabilmente perché l’area lasciata libera al centro delle sedie era davvero troppo grande. Forse è per questo che la celebrazione è cominciata dopo le 4 del pomeriggio, quando il sole è ormai meno caldo e via via si abbassa sulla linea dell’orizzonte.
I musicisti sono il cuore pulsante di ogni festa, soprattutto i djeli. Normalmente è il cantante più esperto a dirigere l’organizzazione della musica, a meno che non sia presente uno strumentista importante. L’ensamble può essere di sole percussioni, come quella che si sta preparando per noi, oppure può accogliere altri strumenti, come una chitarra elettrica, un basso, o persino uno n’goni o una kora. L’amplificazione è solitamente la nota dolente non solo delle feste in strada, ma di quasi tutta la musica dal vivo ascoltata in Africa. Gli altoparlanti, i mixer, gli amplificatori e persino i cavi sembrano provenire dal retrobottega di qualche robivecchi. Il risultato è che il suono ne esce distorto, comprese le voci, ma per fortuna non le percussioni, perché non serve amplificarle.
Al centro dello spazio riservato ai musicisti è stato piazzato il doundoun su un trespolo di legno. E’ un grande tamburo cilindrico che monta due pelli di pecora o di mucca ai due lati, tirate da corde. Si percuote forte con una robusta bacchetta di legno ed emette un suono basso e potente, da cui per onomatopea deriva il suo nome. Accompagnandosi con una campana di metallo può suonare solo o assieme ad altri due tamburi simili ma più piccoli e accordati tra loro, il sangban e il kenkeni, con i quali costruisce la trama melodica del ritmo.
Sia il doundoun che il tama sono strumenti caratteristici dei djeli. Quest’ultimo, chiamato anche talking drum, è un piccolo tamburo a due pelli e dal fusto a forma di clessidra, diffusissimo tra i wolof del Senegal ma di origine mandengue. Tenuto stretto sotto l’ascella, si suona con una mano e una bacchetta ricurva, e grazie alle variazioni nel tiraggio ottenute premendo il braccio contro i tiranti è in grado di modulare il suono come se parlasse.
Il djembé è invece suonato soprattutto nelle famiglie dei fabbri e dei falegnami, i quali conoscono l’arte di manipolare e trasformare la materia, e che nella società tradizionale rivestono un ruolo importante durante riti e cerimonie. .Il djembé è un tamburo medio a calice che monta una pelle di capra, si percuote con le mani e produce suoni forti e secchi, più squillante quello dei solisti. Assieme al doundoun è oggi il principale tamburo dell’area mandengue, sul quale vengono eseguiti non solo l’accompagnamento, ma anche e soprattutto lunghe e articolate improvvisazioni.
Intanto le donne e i bambini, tutti vestiti a festa, si stanno radunando lentamente, mentre i percussionisti si sincronizzano e si accordano progressivamente tra loro. In due suonano i tre tamburi bassi e le campane, in quattro i djembé e uno il tama. Sedute non lontano dai percussionisti, alcune donne con vestiti di splendide stoffe dipinte a mano e nastri variopinti tra i capelli si preparano ad alternarsi al microfono, collegato a due altoparlanti piutosto vecchi e mal suonanti. Sono djeli, e canteranno durante tutta la festa le lodi della famiglia di Mamadou e delle altre famiglie presenti, ricevendo offerte in denaro, e astenendosi dal canto solo durante le accelerazioni furiose delle percussioni. Nel frattempo tutte le sedie in cerchio sono state riempite dalle donne, e in piedi, subito dietro, si accalcano le ragazze più giovani e una infinità di bambini.
Una djeli comincia a cantare, ed ecco che le percussioni si regolarizzano, i djembé accennano i primi soli, mentre le donne si alzano ed entrano nel cerchio, si dispongono in fila e cominciano a danzare delicatamente, passando una ad una davanti ai percussionisti. Nel procedere del ritmo le percussioni alternano momenti di maggiore calma ad accelerazioni progressive e potenti, durante le quali le donne si presentano davanti ai djembé e si producono in assoli di danza. E’ in quel momento che può crearsi il cortocircuito tra djembefola e danzatrice, fino a che non si riesce più a capire se sono le mani di lui a guidare i movimenti sinuosi della donna o è viceversa. L’unione tra i due dura una manciata di secondi, poi tocca a un’altra.
I tamburi hanno ruoli differenti. A cominciare è il tama, che chiama gli altri, seguito dai tamburi bassi. A spingere l’intera ensamble è il doundoun. E’ lui che parte tranquillo, accentuando le battute con corte frasi regolari senza particolari variazioni, ed è sempre lui a chiamare le accelerazioni di insieme con ostinati semplici e potenti, accompagnati da grida e incitamenti diretti personalmente a ciascuno degli altri musicisti dell’ensamble. Come abbiamo visto altre volte, il kenkeni è legato sopra il doundoun e viene suonato dalla stessa persona, mentre il sangban ha un ruolo d’accompagnamento, non concedendosi mai all’improvvisazione. Anche due dei quattro djembe mantengono semplici e costanti frasi di accompagnamento, mentre gli altri due si alternano come solisti.
La festa va avanti a lungo, e trovandomi accanto a un grosso bidone di plastica pieno di acqua e ghiaccio, mentre registro il concerto di percussioni dò una mano a distribuire i bicchieri colmi alle donne e ai bambini che hanno sete a causa del caldo e dell’eccitazione. Nel frattempo djeli, percussionisti e danzatrici si alternano di continuo, ciascuno nei propri ruoli. Ai djembé solisti si vedono Lamine Traore, che suona con la Symmetric Orchestra di Toumani Diabate, Petit Sekou Diabate, djembe di Omou Sangare, e Adama “Petit Adama” Diarra, primo djembé della Symmetric Orchestra e a detta di molti il miglior djembefola di Bamako. C’è da rimanere estasiati dal ritmo e dallo spettacolo.
Nel finale viene portata al centro del piazzale la piccola festeggiata, con un vestitino rosso fuoco e pettinata con due codini ai lati della testa. Gli vengono offerti la torta e una montagna di regali, oltre ai consueti ulteriori canti di lode. E’ oramai buio, le percussioni si fermano e la festa finisce. Io vado a scambiare due parole con Petit Sekou, che avevo già conosciuto in Italia e dal quale avevo acquistato un djembe, e decidiamo di raggiungerlo quella stessa sera al Wassoulou Hotel, dove suonerà assieme ad Omou Sangare.
A cena mangiamo spedini di carne e beviamo una bevanda gassata a base di malto, molto diffusa in tutta l’Africa occidentale. Arriviamo al Wassoulou Hotel alle 11 di sera. Sono eccitato, amo Omou Sangare, l’ho già ascoltata due volte in Italia, ed entrambi sono stati concerti indimenticabili, quindi dalla sua performance a Bamako mi aspetto molto. Il biglietto si acquista alla reception e costa 8.000 CFA, circa 13 euro, un prezzo davvero proibitivo per molti africani. Questo mi insospettisce. Inoltre il Wassoulou Hotel è un albergo quasi lussuoso e fuori mano, sulla strada per l’aeroporto. Che pubblico troveremo?
Entriamo e vediamo Omou seduta ad un tavolino, a bere qualcosa assieme alla moglie di Petit Sekou. La salutiamo e scambiamo qualche parola con lei, che è gentile e accogliente. Purtroppo i miei sospetti si rivelano fondati. Nel cortile dell’hotel, dove il concerto sta per iniziare, sono disposti alcuni tavolini ai quali siedono turisti europei dall’aria stanca e annoiata, un indiano dall’aspetto benestante con sua moglie e un paio di africani in giacca e cravatta. Ci sentiamo a disagio, a me, non so perché, viene in mente Gentleman, il brano in cui Fela Kuti prende in giro i suoi connazionali che imitano gli europei indossando abiti assolutamente inadatti al clima equatoriale, “sotto ai quali sudano e puzzano come la merda”. Per fortuna al nostro tavolo, dove siamo io, Fabrizio, Ibu e Tené, una ragazza amica di Ibu che lavora in un ristorante vicino casa, viene a sedersi anche la moglie di Petit Sekou, che è magrissima e porta una ventata di allegria.
Mentre Omou siede su uno sgabello al banco del bar il concerto inizia senza particolari emozioni, nonostante la cantante sul palco sappia attirare a sé l’attenzione grazie alla sua bella voce e al suo corpo giovane e muscoloso, in evidenza dentro ai jeans attillati e alla camicia legata subito sotto il seno. Anche gli altri musicisti sono bravi, ma evidentemente non si lasciano coinvolgere. Soltanto le due cantanti provano a svegliare il pubblico sonnecchiante, ma solo in quei rari momenti in cui, tra un cha cha cha e un vecchio pezzo da ballo, viene accennato un brano del Wassoulou, dalle armonie pentatoniche e sostenuto dal ritmo del caragnan. L’atmosfera non si scalda neanche quando Omou sale sul palco per cantare la splendida Wayeina, dalla forte impronta fulani, finita la quale si avvicina al nostro tavolo per chiedere in un orecchio alla moglie di Petit Sekou, che è una djeli, di cantare a sua volta. Nel frattempo un rompiscatole stipendiato dall’hotel improvvisa una pantomima per dimostrare come e quanto si debbano pagare i djeli, invito accettato prontamente dall’indiano benestante, che subito tira fuori dalla tasca una manciata di “verdi” da 5.000 CFA.
Per noi il vaso è quasi colmo, e trabocca quando una corista si avvicina con il microfono cercando di farci cantare controvoglia. Aspettiamo educatamente che la giovane djeli finisca il pezzo successivo, poi andiamo a salutare Omou, che nel frattempo è tornata al bar, e ce ne andiamo, inseguiti dal rompiscatole arrabbiato perché non è riuscito a sfilarci l’obolo dovuto. E’ l’una passata. Peccato, forse saremmo dovuti andare ad ascoltare Mah Kouyate in un locale in centro, come proponeva Ibu. Nei giorni successivi cerchiamo di contattare più volte Omou per incontrarla e intervistarla, ma la sua segretaria ci mette i bastoni tra le ruote. Quando lo abbiamo raccontato a l’etnomusicologa inglese Lucy Duran, l’abbiamo vista sinceramente dispiaciuta dell’accaduto.
Qualche giorno dopo, trovandoci per altre faccende nel quartiere di Bara Jigoronì, ci siamo recati con Ibu a salutare la famiglia di Safi, che abita da quelle parti. Nel cortile della sua famiglia, dove l’atmosfera è rilassata e i bambini giocano rumorosamente, ci vengono incontro inaspettatamente Petit Sekou e un altro djembefola che era alla festa di compleanno, e al quale avevo medicato un polpastrello apertosi mentre suonava, e scopriamo che entrambi sono fratelli di Safi. Petit Sekou ci chiede perché avessimo lasciato il Wassoulou Hotel prima che Omou cominciasse a cantare. A me resterà il dubbio che se fossimo rimasti forse non saremmo andati via così delusi, un dubbio che purtroppo è rimasto tale.