Living Colour – Vivid
Anno di grazia 1988. Quattro ragazzotti afroamericani sembrano domandarsi: “Ma perché l’hard rock deve essere identificato con il musicista bianco? Anche noi avremmo da dire qualcosa in proposito!”
Ed in effetti lo scetticismo circa un simile accostamento scompare subito all’ascolto della prima traccia, Cult of personality: un riff di chitarra granitico di zeppeliniana memoria incalzato a sua volta dalla batteria in controtempo che sembra sul punto di inciampare ma che poi si lancia con tutta la sua pesantezza, charleston aperto e via!
Se questo è l’inizio, siamo già a buon punto.
E’ un gran bel rock quello che ci propongono Vernon Reid (chitarra), Muzz Skillings (Basso), Will Calhoun (batteria) e Corey Glover (voce), potente, rabbioso e senza quella sorta di asetticità che sembra affliggere certe produzioni dello stesso genere; il suono è diretto, “sudato”, sembra quasi provenire direttamente dai marciapiedi di una grande metropoli americana (basti ascoltare la velocissima Funny vibe, un uptempo inframmezzato dal rap dei Public Enemy, ospiti d’eccezione). Tecnicamente, poi, nulla da dire: Reid è una furia devastante (anche se affetto da un solismo un tantino logorroico), capace di snocciolare riffs di chitarra efficacissimi (oltre alle già citate Cult of personality e Funny vibe, ascoltare Middle man o Desperate people per credere!); Skillings offre performances di tutto rispetto al basso, come l’intro “balbettante” di Glamour boys o il bellissimo solo di Broken hearts, passando per qualche battuta di slap in Funny vibe prima di passare la palla a Reid; Calhoun, da parte sua, garantisce una batteria solida, fantasiosa e compatta (l’intro di Cult of personality è veramente da manuale). Glover, infine, come tutti i cantanti, può piacere o non piacere (a me per esempio non ha mai convinto al 100%, ma parliamo di piccolezze), non ha un timbro particolarmente originale ma funzionale al sound della band, passando dai toni più pacati di Broken heart o graffiando le corde vocali in Middle man. Nel disco c’è anche spazio per una cover, Memories can’t wait dei Talking Heads, “livingcolourizzata” a dovere.
Ricordo di essere venuto a conoscenza di questa band all’epoca in cui esisteva ancora Videomusic (oops, rischio di svelare la mia età!) imbattendomi per caso nel video di Open letter (to a landlord) e di essermi innamorato a prima vista di quello che udivano le mie orecchie e, soprattutto, ammiravano i miei occhi: un gruppo che a prima vista avrei abbinato al reggae e che invece stava suonando rock, e che rock! In conclusione, un disco che farà felici (o che almeno presumo fece felici all’epoca) sia i rockettari annoiati in cerca di nuove “spezie” musicali, sia i cultori della musica pop in cerca di emozioni più forti. Insomma, un disco senza controindicazioni.