Live, Roma, 8/12/2010
(foto di Fabio Viola)
The Divine Comedy è talmente solo un nome convenzionale per indicare Neil Hannon, che questo crooner e sopraffino musicista nordirlandese si è potuto permettere il lusso di un tour in totale solitudine, alternandosi tra pianoforte e chitarra acustica: a pensarci è bizzarro per un artista che ha sfornato in vent’anni di carriera ben 10 dischi firmati col nome della band, più altre cose tra cui una collaborazione con Thomas Walsh –The Duckworth Lewis Method – per la quale ha avuto la nomination per il premio Ivor Novello. Ancora più pazzesco se si pensa che è il re del pop barocco, con arrangiamenti orchestrali eseguiti da decine di elementi, con costi che si sono addirittura tradotti in
100.000 sterline per un suo vecchio album del ’95 (“Casanova”). Forse attraverso questi dati si comprende quale miracolo di fascinazione sia stata questa tournè che l’ha riportato finalmente a Roma dopo un’assenza di sedici anni, dove era comparso nel ’94 come
spalla di un infinito tour di Tori Amos.
La sua performance è davvero speciale: per la prima volta assisto a un concerto così di un artista non italiano, con un pubblico innamorato e gentile, che capisce l’inglese e interagisce con Hannon con qualcosa di intermedio tra intimità e devozione. Credo che questo abbia a che fare con la sua musica: un pop molto molto sofisticato, al limite
del “difficile” in alcuni casi, che aliena senz’altro i cultori pregiudiziosi del rock tenendo però lontani anche i fruitori del mainstream da radio. Neil Hannon fa una musica molto più simile al raffinato pop da classifica anni ’70, e non a caso durante l’intervista che ha concesso a me e a un collega prima del concerto al Circolo degli Artisti, mentre parlavamo di quanto fosse spesso così trito l’attuale pop e lui era in cerca di esempi sui suoi modelli di riferimento, si è illuminato quando gli ho suggerito “The year of the cat” di Al Stewart, una canzone con un arrangiamento elegantemente vicino al suo “Diva Lady”. Negli anni settanta il pop era diverso: tanto per restare su questo esempio, il pezzo era stato prodotto da Alan Parson, collaboratore pluriennale dei signori Pink Floyd. Per carità, mai pensare ai «vecchi bei tempi», ci dice Neil, ma la scissione tra pop e qualità sembra davvero essere insanabile con poche eccezioni. Nel caso di Hannon, anche i suoi testi sono all’altezza. Arguti, ironici, spesso sferzanti soprattutto quando si tolgono lo sfizio di critiche politiche, come per uno dei pezzi di “BANG goes the Knighthood”, il nuovo album. “The complete banker” riduce infatti a poltiglia i bancari irresponsabili che hanno causato la crisi relativa ai fondi Lehman Brothers (“a conscience free, malignant cancer on society”).
Un prodotto non semplice per il nostro mercato discografico quello dei Divine Comedy, che come risposta del pubblico ha lasciato passare quasi inosservato anche l’ultimo album di Andrea Chimenti, il musicista italiano che più si avvicina al milieu artistico del nordirlandese. Ma l’audience di questo concerto ha fatto intendere che chi si avvicina a
Neil Hannon difficilmente non resta contagiato dal suo genio libero e innovativo, capace di impiegare tanto una folla di archi sinfonici quanto un banjo o una fisarmonica sullo stesso pezzo, con suoni che vanno dalla rarefazione tragica dei migliori Supertramp alle
sigle del Benny Hill Show senza soluzione di continuità, disancorate dal contesto musicale in cui sono scritte e perciò longeve. A questo proposito gli dico che i suoi pezzi mi ricordano i quadri di Edward Hopper, così indatabili e eterni. Ci pensa un attimo e poi dice con una faccia fintamente contrita «Mi stai dicendo che la mia musica è tutta uguale come le sue opere?» e poi «Però in effetti questo suo produrre immagini così nitide e precise della realtà, saper raccontare una storia compiuta in un singolo quadro è una cosa che mi piace moltissimo, in verità, e spero che si applichi anche alle mie canzoni». È vero, Hannon spesso è un cantastorie, capaci di dipingere ritratti quasi tangibile di esseri profondamente umani, grandi nella loro piccolezza, o piccoli nella loro grandezza.
Un’abilità acquisita soprattutto negli album più recenti dove si è staccato dalle immagini molto letterarie e dai prestiti poetici che avevano connotato i suoi inizi: «Non avevo abbastanza cose mie da dire, mi sono appoggiato ai libri per darmi un tono» spiega, e allora gli chiedo quale tra i due protagonisti di “Camera con vista”, se il pedante bibliofilo Cecil Vyse o il carnale e passionale George Emerson (interpretati rispettivamente da Daniel Day Lewis e Julian Sands), gli assomiglia di più: «Vorrei tanto dire George Emerson, ma temo che non riuscirò mai a essere altro che Cecil Vyse! È uno dei film che ha più cambiato la mia vita, sento il bisogno di vederlo una volta l’anno.» E infatti un dialogo tra i due attori fa da intro a un suo vecchio brano “Death of a Supernaturalist” dove Lewis menziona Dante. «Per la verità la scelta di chiamare il gruppo “Divine Comedy” è stata casuale: mi stavo scervellando per trovare un nome perché dovevo consegnare un demo, e sugli scaffali ho visto il dorso del poema dantesco, e ho scelto quello. Il resto, anche certi collegamenti che sento di avere nei confronti dell’Italia, sono arrivati dopo» e sgrana gli occhi quando gli dico che mi ricorda un po’ David Sylvian, che scelse il nome dei Japan senza sapere nulla del paese «E poi è finito a fare dischi con Ryuichi Sakamoto!» esclama pronunciando nome e cognome del pianista giapponese scandendone ogni vocale. Pare davvero portato per le lingue questo esile irlandese quarantenne, e più volte durante il concerto dice alcune parole in un pulito italiano, cercando di coinvolgere il pubblico a giocare e cantare con lui. Nessun problema: l’audience lo seguirebbe anche all’inferno, anche quando chiede di raccontare una
barzelletta, o cantargli l’inno nazionale francese. C’è un sapore quasi da pianobar in questa serata, tanto che non mi pento di avergli chiesto alla fine dell’intervista se poteva suonarmi “Bad Ambassador”, la mia preferita che però, mi dice, non è in scaletta. Sembra dispiaciuto nel dirmi di no, mi spiega che non è sicuro di essere in grado di farla. Poi però la sorpresa: me la suona durante i bis, divertito e per nulla imbarazzato dal fatto che gli ho dovuto ricordare io, dalla platea, i primi due versi dell’attacco. Il mio amico Pier Luigi Zanzi ha commentato così: «Permettersi di essere l’autore di Bad Ambassador e non averla in scaletta è roba da Paul McCartney e altri due-tre…»
Di Monica Mazzitelli