L’enface rougeBar Bari, recensione
L’enface rouge ad oggi rappresenta una delle band più importanti del rock sperimentale internazionale. L’ensemble composto da François R. Cambuzat, Chiara Locardi e Jacopo Andreini offre con il nuovo Bar -Bari l’ennesimo viaggio musicale, come loro stesso affermano, senza direzioni, né frontiere geografiche e tantomeno artistiche.
Anche questa volta, e non poteva essere altrimenti, la band avant rock ha deciso di perseguire l’usuale titolazione del full lenght, scegliendo ancora una volta due luoghi lontani uniti da un fil rouge musicale, capace di addentrarsi in sviluppi talvolta rumoristici e talvolta melodico melanconici. Il gruppo franco-italiano forte di 15 anni di maturità artistica, continua ad alimentare quell’arte zingara del vivere che li ha da sempre portati in luoghi differenti, quasi inseguendo lo status maudit di apolide. Oggi il trio riposa sotto l’icona della Wallace records, ancora una volta in grado di offrire qualcosa in più e qualcosa di diverso dalle solite sonorità.
A dare il via alle danze ci pensa un basso caldo e accogliente che introduce il punto di partenza di questo nuovo itinerario, che sin dalle prime battute sembra essere manipolato all’interno di un crocevia sonoro, capace di accogliere da un lato la parte più alternative dei Noir desir, forse complice al lingua francofona, e dall’altro lato la faccia più sonora e meno disturbata degli Einsturzende Neubauten. Proprio questi ultimi sembrano ritornare nell’interessante brano introduttivo, caratterizzato dal moto ondulatorio della chitarra di Cambuzat. Il tentativo artistico sembra metaforicamente voler introdurre le onde misteriose della cover art, tra una miriade di trombe d’aria impietose e minacciose, proprio come i suoni disturbanti di questa Percuisitions. I medesimi sentori li ritroviamo in Vengadores (Tostaky/Le continent) realizzata assieme al discusso Bertrand Cantat, che grazie alla performance teatralizzata dona allo splendido brano sei minuti di lancinante musicalità in crescendo.
L’ultima fatica dell’ Enfance rouge sorprende e rapisce con tracce come Grand Survie, in cui le percussioni lineari e leggere donano tenuità ad un brano pensoso, la cui voce profonda e particolare rimanda alla delicatezza narrativa.La parte finale del brano ospita avvincenti equilibri di una chitarra che porta un ulteriore aggravamento della sensazione di angoscia e dispersione di una vita raccontata senza troppo ottimismo, ferita dal proprio passato e condannata ad un diluito enclave futuristico lungo sei minuti.
I toni compositivi si alzano senza troppi passaggi di mediazione con Gabes le soire (Maribor le matin) in cui il canto bianco della strofa viene spezzato da stoner riff sporchi e genuini, attraverso l’immediatezza del controcanto che, soffusamente e quasi in maniera proto punk, ne determina il proseguire, attraverso arditi sviluppi soft noise ed alternative. Il filo conduttore ci porta poi attraverso in nichilistico titolo Nada, Nothing,Ninete, Gar, Nicht, Rien e la conclusiva Merde nous sommes presque morts(Vlore) in cui il suono più rockeggianate e Velvet underground sembra emergere senza troppe difficoltà.
Insomma…un disco maturo ed essenziale.