Lemmings, “Teoria del piano zero”, recensione
Bastano le prime quattro battute per farci capire che la Teoria del piano zero rappresenta un ottimo esempio di cantautorato, capace di uscire dalla sacralità imposta dal music business, per rendersi ad un pubblico nobile ed attento e di certo non attratto dalla consuetudine.
Il disco porta con sé sin dal suo titolo la voglia di piacersi e forse compiacersi, attraverso dolci note, testi accorti e ben strutturati. Il secondo full lenght della band capitolina, prodotto da La grande onda e Mala Tempora, infatti racconta in una sorta di concept 9 tracce imperniate su sviluppi testuali legati a distruzione e rinascita, come a voler metaforizzare il cambio di rotta rispetto al recente passato; il mondo dei Lemmings si è fatto più buio e sporco. Le polveri elettroniche e alternative riportano alle menti la necessità di ricostruire e ricostruirsi; non appare infatti casuale la decisione di lanciare il nuovo disco l’11 settembre.
La costruzione della cover art è poi un ulteriore indizio sul rituale di passaggio tra morte e rinascita, non tanto collegata alla reincarnazione induista, quanto alla concettualità dell’araba fenice, capace di risorgere dalle proprie ceneri. Il bimbo in copertina sembra voler rappresentare un futuro migliore di un claustrofobico e malandato presente; la vecchia e decrepita catapecchia non sorregge più quel mondo narrato dall’attento songwriting.
Ad aprire la porta della speranza è la Spirale delle formiche, brano dai sentori Ronin, che, con la sua struttura perfezionata da una deliziosa back voice, si amalgama alla ridondanza Ferrettiana dell’outro, in assoluta dissonanza con la strampalata chiusura atta a introdurre il rock dalle venature surf punk di Grune linie, senza dubbio tra le migliori tracce del disco insieme all’alternative de Il lattaio. In quest’ultimo brano il rullante si forma attorno ad un sapore combattivo e retrò, mentre la chitarra risuona limpida accogliendo sensazioni deja ecù.
Un’accortezza compositiva che trova la miglior alcova in un ascolto attentivo, che renderà merito alle arie compositive di una band che offre questo lungo racconto in nove capitoli. Degne di nota appaiono poi l’outro rabbioso di Hiroshima e la dolcezza di Laura, figlia della scuola genovese, tracciata dai sussurri, da spazi acustici e dalla meravigliosa voce di Luna Gualano. A completare il disco sono le movimentate note di È così sia, che attraverso la sua rabbia e la sua credenza sembra ricordare i Liftiba di prima generazione. Da qui si riparte con un ottima linea di basso, ripresa nella baustelliana Il corso degli eventi, anticipo di chiusura del piano zero, attuata dalla titletrack, indie rock indefinibile e di difficile catalogabilità, a causa del suo sapore proto vintage, tra punk bolognese e musicalità apolide, atto di serrata attraverso una sorta di glorificazione vocale di una nuova e utopica era sociale.
Un disco dall’aria umida stanca ed opprimente, che tra rabbia e rassegnazione superata, raccoglie le energie necessarie per mettere in atto questo piano iniziatico.