Lee Perry – African Roots
A partire da questa recensione comincia la nostra esplorazione tra le opere degli artisti che si sono rivolti all’Africa con la curiosità di chi intende esplorare le proprie radici lontane.
Lee “Scratch” Perry è un autentico genio che ha fatto la storia della moderna musica giamaicana dalla fine degli anni ’50 ad oggi, e non avrebbe bisogno di alcuna presentazione. Ma per i pochi che non lo conoscessero basti dire che lavorò come talent scout per la Studio One di sir Coxsone Dodd, che produsse alcune delle prime incisioni degli Wailers di Bob Marley prima che quest’ultimo firmasse il contratto in esclusiva con la Island di Chris Blackwell, che fu dai suoi Upsetters che uscirono i fratelli Aston e Carlton Barrett, basso e batteria degli Wailers, e che fu lui, al fianco di King Tubby, a inventare e sviluppare il dub, la variante “spaziale” del reggae che avrebbe influenzato tutti i generi musicali dalla metà degli anni ’70 in poi.
Proprio durante i mitici seventies, mentre la maggior parte dei gruppi di roots reggae, ispirati dalle dottrine di Marcus Garvey, cantavano dell’Africa come della terra promessa, Lee Perry decise con spirito pionieristico di registrare un album assieme ad alcuni artisti congolesi, e nacque African Roots. Era il tempo in cui gli africani che si recavano in Giamaica venivano trattati come gli inviati di Rastafari in persona.
Dopo poco scoppiò un incendio che distrusse la sede della Black Ark, produzione e studio di registrazione fondati da Perry e da cui erano usciti artisti del calibro di Max Romeo e i Congos. La Island , che si era mostrata interessata al progetto tanto da mandare il famoso fotografo Dennis Morris a documentare il tutto, cedette alla fine i diritti alla francese Sonodisc, che pubblicò sei delle otto tracce di African Roots nel 1979, prive di note di copertina. A distanza di quasi trent’anni la Trojan fa uscire per la prima volta la versione integrale di quel progetto, con tutte e otto le tracce più una bonus track, corredata dalle fotografie originali di Dennis Morris e dalle note scritte da Jeremy Collingwood.
African Roots rappresenta il primo esperimento ibrido afro-giamaicano della storia, registrato molto prima che il reggae prendesse piede in Africa. I protagonisti sono i due cantanti congolesi Seke Molenga e Kalo Kawongolo, che suonano anche chitarra e percussioni, accompagnati dagli Upsetters di Perry, con artisti del calibro di Earl Chinna Smith alla chitarra, Vin Gordon al trombone, David Madden alla tromba, Glen De Costa al sax, Winston Wright all’organo, Mickey Boo Richards alla batteria e Boris Gardiner al basso.
Solo nel 1987 un altro grande artista reggae, Jimmy Cliff, registrò in Congo un disco di soukouss, Shout for Freedom, assieme a storiche orchestre zairesi come la OK Jazz e Afrisa International. Ma African Roots non è soukouss, è reggae contaminato, in cui l’originalità è data dalle voci di Seke e Kalo, a volte ruvide e antimelodiche, a ricordare il sound ghaniano o nigeriano, in altre invece liriche, nel più caratteristico stile congolese. La lingua lingala e le percussioni rafforzano l’anima africana del disco.
Come tutte le produzioni Black Ark, dove Perry registrava su quattro piste e riversava il tutto su una sola traccia per poter aggiungere gli effetti sonori con la tecnica dell’overdubbing, la qualità della registrazione è piuttosto scarsa. Nonostante ciò African Roots è un disco ricco di fascino e di atmosfera, con momenti di intensità e poesia commoventi. Il genio di Perry si percepisce soprattutto nella perfetta fusione tra le anime provenienti dalle due sponde dell’Atlantico, nel groove, nell’amalgama dei suoni e nell’intenzione, che poco dopo avrebbe dato alla luce Heart of the Congos, uno dei dischi più significativi della storia del Reggae e certamente il progetto targato Black Ark più riuscito. Ma anche i Congos, tutti giamaicani, furono pubblicati da Blackwell, con il quale Scratch aveva una relazione fortemente ambivalente. Fu forse per rivalsa che Perry definì i suoi Seke Molenga e Kalo Kawongolo “the Original Congos”. African Roots è un’opera unica di un genio folle che si è salvata misteriosamente dalle fiamme per arrivare a noi oggi. Risente del tempo e trasuda nostalgia.
Brani:
African Roots
Bad Food
Moto Ya Motema
Mengieb
Wakoya
Gupimbu Gienu
Nzube
Masanga
African Freedom