Le Freqeunze di Tesla: esce “Il robot che sembrava me”
Parliamo di pop progressivo. Ci lasciate il pregio di poter usare espressioni ardite come queste? Beh certamente, nei giorni in cui torna sulla pubblica piazza la musica di Battisti, direi che come parole non dovrebbero spaventare. E non siamo qui per accostare i due nomi ne per fare parallelismi… ma quello che di rado accade nel secondo disco del trio bolognese indie-rock Le Frequenze di Tesla è quanto più di vicino ci sia ad una idea di pop progressivo… o quanto meno ci hanno provato con molto gusto. Si intitola “Il robot che sembrava me” visto che lungo questi 10 inediti i nostri spesso coccolano quel concetto di corsi e ricorsi storici, dagli amori che tornano a somigliarsi alle attività quotidiane che sembrano sempre scandite da strumenti pregni di robotica… quasi a farci passare noi stessi da perfetti robot. E questa figura diviene anche la chiave di volta con cui costruire parallelismi con noi essere umani di questa generazione digitale.
E dopo un primissimo brano title track del disco che ci riporta davvero a quel pop computerizzato (che su due piedi ci fa pensare alle trasmigrazioni elettroniche del Paolo Tofani adoratore di Krishna o al più attualissimo Tommaso Tam – beatlessiano anche lui, non a caso), scopriamo anche una vena suddista di quel pop rock americano che in qualche modo ha caratterizzato (ad esempio) la saga Warner dei REM (per fare uno dei primi nomi gloriosi che mi saltano alla mente). Restando sul tema, da una parte trovo interessante (appunto) quel gusto roots degli arrangiamenti e dei suoni che inevitabilmente diventano spontanei come in “Borderline” (che dimostra tendenze zeppelliniane senza mai esporsi però con soluzioni decise e mostrate in primissimo piano lasciando che un po’ tutto resti alle spalle come ad essere coperte di una nebbia vintage), dall’altra un po’ “stona” quella voce così “pop”, cioè fin troppo (invece) in primo piano che quasi si scolla dal carattere acido delle impalcature strumentali. Forse le soluzioni che troviamo in “E non resta più niente”, dove la voce viene invecchiata di effetti, risultano decisamente più vincenti e quasi – soprattutto in questo brano – eccoci ad assaporare quel gusto che formazioni storiche come i Pooh ci hanno regalato negli anni beat italiani. Rock inglese, di stampo americano ma pur sempre di pop italiano si parla. Ma subito cambiamo pagina con “Futuro felice” che ci serve qui per scoprire in tavola le due carte portanti: in questo brano ci troviamo di fronte alla scena indie italiana nel più didascalico dei toni con una bizzarra quanto geniale costruzione lirica dei testi fatta solo di parole che iniziano per “f”. E che dire poi di “Come allo specchio” davvero il momento più beatlessiano del disco anche se in “Charles Watson” scorgo una intro che, in modo sghembo e con qualche trucco in faccia a coprirne le righe, mi rimanda inevitabilmente a quella “Lucy in the sky with Diamods” da cui non possiamo prescindere. E se una colonna portante del disco è proprio lo scenario indie pop italiano, l’altra – come anticipavo – è quel bellissimo coraggio che i nostri mostrano nel deformare la forma canzone e le sue attese. Capofila di questo loro movimento è proprio il singolo di lancio “Le migliori evidenze” che nel suo incedere di 3,50 minuti mostra ben 3 facce: un primo adagio pop in linea con quanto detto prima che poi tramuta drasticamente e con coerenza nel secondo scenario d’inciso di natura (addirittura) dance… la stessa che poi, come terzo scenario, viene arrangiata in una via che par essere un compromesso tra i due estremi fin qui risolti. Ma il vero punto di coraggioso pop trasgressivo lo dimostrano con l’ultima traccia dal titolo “Pensieri di ieri” in cui l’elettronica la fa da padrona per questo scenario space sospeso colorato da disegni ritmici di controtempi e contrappunti e mai sfacciate battute di tempo. Poi una pausa di silenziosa atmosfera e di nuova una dinamica appena più decisa a condurre lo sviluppo di un brano che vuole scappare dall’omologazione.
Questo disco ha la pecca di cadere in tempi di omologazione (appunto), in cui ormai è tutto già (mal) sentito e (peggio ancora) codificato. Di certo mancano le soluzioni forti che si fanno ricordare o che, nel mare di filosofiche espressioni di altro, sanno come usare il vero “pop” per annientare il muro di indifferenza dei tanti. Manca forse di carattere univoco e di individualità riconoscibile ma di certo è, che come secondo disco, siamo di fronte ad un ascolto che pone basi davvero molto interessanti per una futura crescita. Impossibile scollarsi da Beatles, ce ne rendiamo tutti conto… ma forse, l’augurio che vi faccio, è nel non lasciar da sole canzoni come “Pensieri di ieri”… abbiate coraggio!