Le capre a sonagli “Sa di Capra”, recensione

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Vi basterà guardare il loro video di Note d’amor per rendervi conto che il mondo delle Capre a sonagli non solo rappresenta un folle compendio di allucinazioni musicali, definite attorno al coraggio di depredare generi diversificati, ma anche una maniera fluida di muovere i passi artistici verso strutture musicali coinvolgenti ed avvolgenti.

La band, ancora poco attenta al e-marketing (all’interno del web non troverete molto su di loro), sembra volersi rinchiudere nella valigia del passato, quando le nuove tecnologie non avevano ancora conquistato la nostra anima; infatti proprio questa semplicità bertoucciana fuoriesce non solo dalla cover art seventies, ma anche e soprattutto nell’arco compositivo delle dieci tracce di questo primo full lenght. Il disco, figlio di due lustri di gestazione, rappresenta uno start point interessante, capace di mescolare stoner, folk, alternative country, eletronica, hard rock e blues, in una ricetta che trova nell’innovazione e nel coraggio le giuste spezie.

Il full lenght, che sarà disponibile a partire dal 3 ottobre 2012, si presenta nella classica veste lo-fi, in un viatico che dal Pan del Diavolo ci porta a sensazioni oversea, nel loro autentico imperversare ispirato da una vecchia chitarra classica priva di ponte.

Le tracce ci introducono senza soluzione di continuità all’interno di un surreale gioco di spostamenti, come fossimo immersi in un eterogeneo folle mondo, mediamente distante dai furono Mercuryo Cromo (la loro psiche trascorsa), ma legato da un sottile trait d’union all’esigenza esplorativa che la loro musica palesa.

L’ottima calibrazione della voce di Stefano Gipponi ci introduce in brani immediati come accade in Elefante, specchio della loro forza, e in Pirata della strada che apre la via ad un brusco andamento sonoro esclusivamente strumentale, capace di raccontare con attenzione quasi onomatopeica una storia di sole note. Se poi con brani come Ringo si intravedono vincenti sensazioni compositive, nell’ insania espressiva di Caronte l’ascoltatore viene trascinato da un leggero cappio musicale fatto di estensioni e sgarbati cambi di direzioni, in netto contrasto con il ciclotimico viaggio raccontato da Note d’amor, ansimante cavalcata dal fiato corto.

Di buona fattura appaiono poi i riffing tormentato de La triste mazurca della morte, in cui stridii chitarristici evolvono dal mondo alternativo, e l’introduttiva idea artistica de La capra e il bastone, che con il suo sapore anni ’80 si offre ad una melanconica prefazione alt-country, in cui la sensazione preparatoria va a maturare nel prosegui di un disco che vede in Dio non sa uno degli apici più convincenti.

Un platter sapientemente breve, che vive delle proprie idee e non di un’intrinseca insicurezza compositiva tipica di molti dischi contemporanei. Un opera che aspetta al varco l’ascoltatore curioso e affamato di nuove sensazioni alternative, colonne portanti di un progetto che sembra possedere solide basi e uno sguardo attento verso l’orizzonte.