L’altra Telephatic, recensione
A dispetto del nome, questa band, formata da Lindsay Anderson, Joseph Costa, Ken Dyber, Eden English e Marc Hellner, arriva dalla fertile Chicago, città spesso troppo sottovalutata a livello musicale. La pop indie band ritorna alle stampe dopo un silenzio infinito, per questo quarto lavoro racchiuso all’interno di una surrealistica workart, capace di proporre il lato stranito e sognante dell’ensemble.
Il centro del mondo proposto da Costa e soci si basa su un’accorta ricerca delle sonorità, volte a realizzarsi al meglio su melodie alternative pop, tra introversione e sussurri, che si amalgamo al meglio a sei corde posate e ritmiche meditative dai dettagli avviluppati.
L’incipit Dark corners I funge da catalizzatore dell’attenzione, i fiati si risvegliano lentamente grazie alla sonorità melanconica e a tratti fuorviante rispetto agli intenti di Telepathic. Infatti il vero battesimo del full lenght è dato da Nothing can tear it apart, probabilmente il brano meglio riuscito dell’intero album. Lo sguardo compositivo sembra guardare al mondo Sparklehorse, condito però da note vulgaris. Una traccia maggiormente popolare rispetto agli idealismi di Linkous, ma che, nonostante tutto, riesce a interpretare perfettamente ogni singola nota nel suo classico andamento strofa-chorus, che riporta alla mente certi episodi di Sufijans Stevens. Meno convincente appare invece la seguente Big air kiss, in cui chitarre da acoustic moviment sposano cambi di direzione, che ciclicamente ci riportano in un territorio deja ecù, nonostante un netto miglioramento nella sua seconda parte, in cui un nobile violoncello interviene all’interno di una sonorità prettamente easy listening. Il disco appare comunque ammaliante, meditativo e lucido come dimostrano Boys e When the ships sinks . La prima traccia racchiude una posata sofferenza dall’aria estesa e ridondante, in cui il contro canto di Lyndsay raccoglie l’appoggio dei vocalismi maschili, sino ad elevarsi verso sensazioin tanto diluite quanto eteree, appoggiate ad un uso Ronin delle pelli. When the ships sinks invece si dipana attraverso un piacevole ed ossessivo riff addolcito da un convincente cantato, che in una sorta di mistura generazionale riesce a far incontrare il nuovo millennio con un sound eighteen. Se poi meno convincenti appaiono Black wind e la proto Sigur Either was the other’s mine, si torna su buoni livelli con gli istinti elettronici di Winter loves summer sun ed i sentori indie di This Bruise, in cui la sporca sonorità delle dita sulle corde dona un’interessante aurea di genuinità ad un disco che, passando dalla dolcezza compositiva della Gardenstatiana titletrack, giunge alla sua chiusura con il suo secondo angolo oscuro, in cui una sonorità apparentemente free decreta il finale melanconico e opaco di un disco meritevole di attenzione.
TRacklist
01. Dark Corners
02. Nothing Can Tear It Apart
03. Big Air Kiss
04. Boys
05. When The Ships Sinks
06. Black Wind
07. Either Was The Other’s Mine
08. Winter Loves Summer Sun
09. This Bruise
10. Telepathic
11. Dark Corners II