Karenina “Via Crucis”, recensione
Nulla è lasciato al caso, se arriviamo (con doveroso rispetto) a porre un parallelismo tra Tolstoj e i Karenina, abile quintetto bergamasco. Infatti, proprio come l’autore di Jasnaja Poljana, la band appare attratta da stimoli realisti, spesso sollevati dalla banalità attraverso un tanto pretenzioso, quanto riuscito songwriting, da cui nascono, muoiono e ritornano non solo le esigenze di rappresentare la realtà quotidiana,ma anche e soprattutto l’urgenza di raccontare un vero e proprio viaggio in una nazione disorientata . Una sorta di (sur)reale “Via Crucis” nell’Italia divorata dai suoi mali.
Il disco, promosso non solo in Vinile e cd, ma anche in download gratuito, parte dall’opera fotografica di Roberto Presenti, firma della cover art di questo nuovo lavoro. Una sorta di allegoria concettuale che, pur richiamando alcune visioni surrealistiche di Salvador Dalì rimane ben ancorato al concreto presente.
Sotto la scorza della copertina, 11 tracce, o meglio, 11 capitoli di un racconto unico, narrato in forma di concept, in cui la ciclicità occludente del vivere è racchiusa dalla coincidenza evocativa di una partenza che è al contempo arrivo di un mondo stranito, osservato al di là del punto di non ritorno ormai definitivo(?).
Ad aprire la “Via Dolorosa” è un battito diluito e bradicardico, in cui una voce filtrata innesta le note come piccole gocce sonore, pronte ad incanalarsi in una avvolgente e calda idiosincrasia sonora, interposta tra minimalismo new wave e ostruzionismo rumoristico, reso lieto e funzionale dalle armonie vocali, tra cambi direttivi e enclave (non) sonore, in cui la traccia evolve e involve senza soluzione di continuità. Un percorso irto e sorprendente ricreato attraverso un uso artistico non solo degli intarsi alternativi, ma anche attraverso l’utilizzo di una vocalità mai banale nel suo narrare, proprio come dimostra lo splendido outro. La struttura viene poi a fondersi in Ovest, più semplice ed armonica e forse per questo meno convincente, anche a causa di accenni elettronici troppo banalizzanti, posti verso un antro in cui il pianoforte ridondante si abbraccia alla sezione ritmica minimale e scarnificata. La giusta via si ritrova nel divertissement di Nel centro del Paese, sarcastica ed ironica nella sua forma canzone, e Per vederti ancora, in cui l’anima poppeggiante sembra non escludere il proprio ego, rivitalizzato da attrattive intricate e curiosamente cripto sperimentali. Un insieme (s)comodo di note che nasce dall’urgenza espositiva, qui lontana dalla scontatezza.
Se poi con Hey tu! la band si avvia verso un teatralizzato spoken word, l’apice rabbioso trova terreno fertile nel cuore di Non si muove, in cui il vortice sonico si muove cauto tra approcci diretti e spedite attrattive in battere. Una sorte di ponte schizofrenico, interposto tra armonia e scompostezza, dettato dall’uso ossessivo dei piatti e dalle spezie senza tempo.
A chiudere il folle viaggio verista è l’intimismo di L’Italia è bellissima, figlia legittima dell’indie sotterrato, e la docile 26 febbraio 2011, cupa e claustrofobica, in grado di complementare ritmiche grevi e appesantite con una linea vocale che qualcosa deve alla pulizia pop del nostro patrimonio artistico.
Dunque, una mescolanza sonora che, tra sollecitazioni electro-rock, venature rumoristiche e impatto cantautorale definisce l’imprinting di un disco non troppo immediato e bilico tra pensieri e meditazioni.