Junky Star – Ryan Bingham. Recensione
Definire il produttore T Bone Burnett: “Re Mida” della musica alt-country americana contemporanea non è certo un’esagerazione.
Tutto ciò che tocca, da un po’ di tempo a questa parte, diventa oro ed è quindi più che naturale che i migliori artisti (vedi Robert Plant, Jakob Dylan, John Mellencamp e, prossimamente, anche Elton John) richiedano la sua collaborazione in cabina di regia per la creazione dei propri album.
E così, dopo il successo già ottenuto con “A weary kind” (recente premio oscar come miglior colonna sonora di “Crazy heart”), anche Ryan Bingham, emergente cantautore del New Mexico, ha pensato bene di riproporre il sodalizio per il suo terzo disco, suonato con i fidi “Dead Horses”.
Avendo nelle orecchie l’eco dei primi due lavori: “Mescalito”, ma soprattutto “Roadhouse sun”, la sensazione, è che Burnett abbia tentato il più possibile di togliere al ragazzo una certa tendenza a “suonare selvaggio”. In fondo, venendo il giovane cowboy dal mondo dei rodei, avrà pensato di trattarlo proprio come uno dei tanti tori, belli tosti, tentando di domarlo prendendolo per le corna.
E in effetti, già quando partono le prime note dell’iniziale “The poet” (ballatona folk di altri tempi e certamente fra le cose più belle mai suonate da Bingham), si capisce che lo sforzo non è stato vano.
La mano esperta si nota anche in altri pezzi d.o.c. come la dolcissima title track, e “Yesterday’s blues”, che sembrano outtake di “The Ghost of Tom Joad”. La prima “storia” parla di un contadino che fugge via dopo aver ucciso un’ipocrita venuto a stringergli la mano prima di provare a portargli via la fattoria.
Ciò che la rende speciale, a nostro avviso, sono quelle “pennellate” di armonica che sanno toccare le corde più profonde dell’anima.
Una patina di piacevole ruggine, che mette bene in evidenza la voce di carta vetrata di Bingham, la si trova nella attualissima (nel tema trattato) “Depression” che cambia un po’ il ritmo del cd (spesso lento) e incarna maggiormente lo suo stile più grezzo dell’autore. Quasi si direbbe che in questo caso il toro sia un po’ sfuggito dal controllo del produttore.
Volendo indicare un’ultima canzone con una marcia in più, punteremmo il dito su “Hallelujah”, colonna sonora per cowboy solitari che meditano accanto ad un falò, in cui spicca un assolo finale di chitarra “bloosy” veramente incisivo.
Per concludere, ci sentiamo di consigliare questo “Junky Star” a quanti, appassionati di musica tendenzialmente acustica, siano già innamorati di dischi che hanno fatto la storia della musica americana (relativamente) più recente, come “No Mercy” di Dylan, o “Nebraska” di Springsteen. Lo evitino invece coloro che desiderano una scossa rock, perché resterebbero decisamente a bocca asciutta. Per quella, ci scommettiamo, rinviamo al prossimo capitolo di Bingham.