Jovine “Parla più forte”, recensione
Sopravvissuto ad un reality show
Lui, permettetemi di dirlo, non è certo un prodotto della Tv. Lui arriva dai sobborghi di Napoli, da palchi underground, da quel mondo che si suda e si conquista poco alla volta. Si chiama Valerio Jovine e rappresenta un piccolo pezzo della nostrana suburbia reggae.
Dopo qualche mese di attesa ecco, dunque, a voi la nuova fatica dell’artista partenopeo. Un disco convincente e trainante, mosso dall’aurea reggae muffin, giunta a noi in maniera graduale. Pronto a mutare l’onda romantica e minimale di Bisogno d’amore , il disco si orienta nel danzante ritmo in levare di Fulmini che, tralasciando l’inquietante “nannana”, ci scalda con un tempo ben cadenzato, su cui la linea vocale di Jovine si racconta con armonia e naturalezza. Il platter però, dopo un promettente impatto, trova la sua tangibile forza vitale solo con Cap’e mur, realizzata in featuring con Zulù. La traccia si innesta su una retta emozionale scandita da fiati, intarsi creativi ed onomatopeici, che offrono un orizzonte danzante su cui si cuciono i graffi vocali e le diluizioni dell’hammond.
Non poteva poi mancare la descrizione ironica dell’esperienza vissuta sul palco di The Voice ( Ho fatto ballare la Carrà in levare ed ho trovato una suora che voleva soltanto cantare…) e un attento sguardo alle nuove frontiere rap, proprio come dimostra Nonostante tutto , piacevole scheletro musicale che, tra back voice e rimandi vintage all’immagine sonora di Ghemon, sembra essere un riferimento non troppo ardito. La traccia in featuring con Dope one, inoltre, porta con sé spezie dance hall, così come Parla più forte incrocia striature heavy, armonizzate tra raggae e distorsioni sintetiche al servizio delle barre Clementiniane.
Superando poi le curve perfettibili di Penso, si giunge sulla soglia di Non ti dimenticare mai, sviluppata tra sampler e onde derivative di un reggae marleyano, e Senza Penzier purezza jamaicana sposata a reminiscenze 99 Posse. Ma l’apice del disco lo si ottiene sul finire di percorso, attraverso la magnifica cadenza rocksteady di Non so che fare senza te, sognate storia di un amore in levare. I cori di Fabiana Martone ci conducono con ammaliante dolcezza verso Un motivo non c’è, lirica che si offre agli astanti vestita di semplicità e piacevolezza, di certo tra le canzoni più radiofoniche dell’album. Infatti, appare impossibile evitare di piegare i gomiti ad angolo ed imbracarsi in un passo deliziosamente ska, pronti a riportare alla mente le armonie tipiche degli Arpioni.
A chiude il disco è infine Superficiale, con la quale si torna ad un ambiente reggae, inquinato da bolle sintetiche, innestate sulla tipico andamento rosso verde e giallo.
Dunque… un disco con i dread clock , curato e narrato in ogni sua parte…
Unico neo? La cover-art non troppo riuscita.