Jethro Tull – Minstrel in the gallery. Recensione dell’album.
Quando rovisto nella mia collezione di CD a volte mi ritrovo tra le mani delle cose che erano cadute nel dimenticatoio e quasi automaticamente mi viene voglia di tappare certi buchi della mia memoria musicale. Non è assolutamente vero che i dischi lasciati impolverare negli scaffali sono lì perché non si meritavano un destino migliore. E’ spesso vero invece il contrario, cioè che le migliori sorprese vengono proprio dal “materiale accantonato”. In questo caso poi la mia personale messa da parte coincide con anche con il destino che questo disco ha incontrato, considerato dalla critica “minore” o “di poca importanza”. Invece risulta essere uno dei migliori manifesti dei “mid-seventies”.
Nel 1975 la storia del rock viveva un periodo ibrido che coincideva con la parabola discendente della corrente art rock/progressive e i primissimi spunti del punk. I Jethro Tull negli anni precedenti avevano già registrato album di grande successo come “Stand Up”, “Thick As A Brick” ed “Aqualung”.
Sottovalutato nella loro discografia è invece il prodotto di quell’anno, “Minstrel In The Gallery”, lavoro nel quale Ian Anderson e soci sembrano esprimersi con la massima libertà mentale allontanando tutti i cliché a loro affibbiati e riuscendo alla perfezione ad amalgamare le caratteristiche di vari generi senza farne un pot-pourri confusionario e pretenzioso come successo a volte in passato. Soprattutto nei primi tre pezzi del disco è cristallina la formula composta da un’introduzione tranquilla con chitarra acustica e flauto che poi esplode nella chitarra elettrica di Ian Barre. Nella title track che apre il disco i Jethro Tull raggiungono forse la loro punta massima di hard rock della loro intera carriera grazie non solo alla chitarra di Barre ma anche alla potenza dell’organo di John Evan. E’ subito evidente come le melodie tipiche del folk inglese si mescolino bene con questo forte impatto di energia e il feeling tra i componenti del gruppo sembra migliorare pezzo dopo pezzo. In “Cold Wind To Walhalla” si è trascinati da un sound medievale e drammatico e l’apice progressivo dei Jethro Tull viene raggiunto proprio in un momento storico in cui il prog sembrava ormai dimenticato (ed è curioso il fatto che i Jethro Tull non siano mai stati considerati dei veri esponenti del genere dalla critica specializzata dell’epoca). “Black Satin Dancer” ci dà ancora una volta la possibilità di apprezzare i riff elettrici di Barre che accompagnano la vena blues di Anderson fino a prendere il sopravvento ed a caratterizzare il pezzo con svariati cambi di ritmo. Si potrebbe idealmente indicare come la fine della prima parte di un disco che da questo punto in poi prende connotazioni più tranquille, inizialmente con la ballad acustica “Requiem”, un pezzo riflessivo e delicato eseguito esclusivamente da Ian Anderson alla voce e alla chitarra, seguito da “Nothing At All” che ne ricalca le orme con effetti simili ma che sembra più che altro una semplice nota d’apertura alla lunga suite finale (17 minuti) “Baker St. Muse”. Suddivisa in capitoli come ogni suite che si rispetti, “Baker St. Blues” mette insieme tutto lo spirito dei Jethro Tull, dalla melodia più dolce al rock più duro, dal blues-rock che li aveva contraddistinti in “Aqualung” fino al folk delle loro origini. Anche in questo pezzo si respira uno spirito progressivo sorprendente, molto elegante nei lunghi tratti melodici e mai pesante, ben intervallato da parti elettriche di ottima tecnica e capace di mettere in evidenza una produzione musicale (curata da Anderson stesso) di ottimo livello.
Un album essenziale per apprezzare al meglio i Jethro Tull al pieno della loro maturità artistica, “Minstrel In The Gallery” è ben concepito e ben suonato, piacevole da ascoltare e capace di esaltare impianti hi-fi di livello grazie ai suoi passaggi tranquilli alternati all’aggressività delle parti elettriche. E chi ha voglia e capacità di seguirne i testi potrà anche captarne i sottili scambi tra serietà ed ironia. Insomma i motivi di interesse sono svariati, sarebbe un peccato continuare a sottovalutarli…