Jakob Dylan – Women + Country, Recensione
Chi pensava che per l’ex frontman dei Wallflowers il suo primo disco solista, “Seeing things”, rappresentasse un episodio isolato, dovrà ricredersi. Dopo anni di rock cristallino con la sua band, Jakob Dylan sembra aver fatto una scelta di campo decisa, percorrendo nuovamente il sentiero che porta dritto alle origini della carriera paterna (country e folk cantautoriale di grande spessore). In pratica esattamente l’opposto di ciò che fece Bob quando, nel ’66, ebbe la clamorosa svolta elettrica.
Per tentare di dare un suono omogeneo e ben riconoscibile, ai suoi album, l’artista americano non si è limitato a scegliere come condottieri della nave gli ultimi arrivati, ma piuttosto i primi della classe. Dopo il produttore Rick Rubin, infatti, questa è la volta di un certo T Bone Burnett la cui mano, già emersa in “Raising Sand” (di Robert Plant e Alison Krauss, fra i migliori album del 2007), plasma di fatto questo Women + Country.
Quanto alle donne, intanto, Jakob comincia col sceglierne due: Neko Case e Kelly Hogan, quasi come muse ispiratrici o, meglio ancora, sirene ammaliatrici che incorniciano con le loro voci quasi tutte le 11 canzoni dell’album. Ma “Donne + Nazione” (come dire… “canto dell’amore e del mio paese”), sono essenzialmente i temi scelti per intrecciare le sue storie.
Storie di amori finiti male, come quello che emerge da “Smile when you call me that” (accattivante, con quella pedal steel guitar a dilatarne l’effetto), o in generale che rievocano quelle raccontate nell’ideale trilogia cantautoriale di Springsteen (Nebraska, Ghost of Tom Joad e Devils and dust), dove i personaggi cercano una risposta dalla vita che non arriva mai, come capita nella splendida canzone di apertura “Nothing but the whole wide world”.
In altre ancora sono la disillusione e lo scoramento a regnare sovrani, magari dopo aver realizzato di essersi perso in mezzo al mare della vita, trascinando con sé tutto e tutti (“Standing eight count”, con le sue trombe e tromboni, parodia malinconica di una parata degli sconfitti). Nella deliziosa “Yonder come the blues”, addirittura, l’omaggio al Boss diventa palese anche a musicalmente parlando, con evidenti richiami (forse non a caso…) alle note della mitica “My Hometown” di Born in the U.s.a.
Dylan pianta poi, proprio nel mezzo dell’album, due alberi dalle alte fronde: Holly rollers for love” e “Truth for the truth”, splendide ballate in stile “americana” le cui melodie, per bellezza ed immediatezza, rischiano di fare ombra al resto del disco. Della seconda, in particolare, ci piace evidenziare il modo poetico (giocando con l’assonanza di “tooth” con “truth”) col quale viene descritto il mondo intorno a noi che, privo di amore, si basa sul principio della vendetta, rischiando di rimanere cieco (“you would be blind if you only knew it was eye for an eye and truth for truth”). Ma non è solo un gioco di parole, perché oggi esiste veramente fra la gente un contrapposizione di ideali, di religioni (di verità..appunto) che porta allo scontro e alla divisione.
A dire il vero, anche quando aumenta leggermente il ritmo, come in “Everybody’s hurting”, oppure lo stile devia verso una sorta di western movie (tipo in “They’ve trapped us boy”, con quel suo mandolino ben arrangiato), il livello della qualità non scende affatto ma, al contrario, consolida l’insieme.
Non sappiamo ancora se questo disco riuscirà a far emergere questo artista dal cognome oltremodo pesante (in pratica la storia della musica sulle proprie spalle, roba da far tremare le vene ai polsi) oltre la cerchia dei suoi fan, ma su una cosa scommettiamo: chi avrà voglia di ascoltare almeno due volte questo disco lo ascolterà probabilmente per anni, semplicemente perché è un piccolo gioiello, realizzato con materiale che saprà resistere all’usura del tempo.
Tracklist
1. Nothing but the whole wide world
2. Down on our own shield
3. Lend a hand
4. We don’t live here any more
5. Everybody’s hurt ing
6. Yon der come the blues
7. Holy rollers for love
8. Truth for a truth
9. They’ve trapped us boys
10. Smile when you call me that
11. Stand ing eight count