Iron Maiden e Motorhead – Live Stadio Olimpico Roma
Per qualche settimana ho dovuto tenere a bada l’emozione. L’idea di vedere sullo stesso palcoscenico due mostri sacri dell’heavy metal come Motorhead e Iron Maiden, non capita tutti i giorni.
Partendo da Genova, la strada da percorrere è lunga, sono 501 chilometri di binari che mi separano dal Caput mundi, proprio come indica Trenitalia nel ticket di seconda classe. Nonostante una partenza intelligente, complice un classico ritardo del treno su cui viaggio e l’infernale e caotico traffico romano, mi rendo immediatamente conto che i miei buoni propositi di entrare in orario decadono in malo modo. Sono circa le 17.00 quando in lontananza intravedo il villaggio olimpico, che con la sua architettura da ventennio, protegge il maestoso Stadio Olimpico.
Varcati i primi filtri, l’eco della musica pesante, inizia a farsi sentire, salgo le scale già intasate da una miriade di bottiglie di plastica. Sorpasso i tanti ragazzi che bivaccano nella disperata ricerca dell’ombra e finalmente, abbagliato dal sole, entro nel cuore della curva Sud. La maestosità dello stadio è impressionante, l’emozione si confonde però con una piccola delusione; volgo lo sguardo alla tribuna Monte Mario e poi al prato, valuto le presenze e ne rimango deluso per il fatto che obiettivamente speravo in una maggiore presenza di pubblico.
Sul palcoscenico si stanno esibendo i Machine Head, band statunitense che negli ultimi anni ha avuto il torto di vendersi al nu-metal perdendo la genuinità trash dei primi tempi. Siamo ben lontani dalle sonorità di “Burn my eyes”, anche se con l’ultima fatica “The blackening”, si segnala un blando ritorno al passato. Il live poco convincente si dipana attraverso banali riff nu-metal che non connotano in maniera particolare la band, che si getta così in deja-vu di scarso sapore, nonostante un Robb Flynn piuttosto in forma, che sfoggia un invidiabile set di chitarre. Il sound esce dalle casse potente ma poco incisivo, il pubblico apprezza ma incondizionatamente; se sul palco ci fossero Ill nino o gli Stonesour nessuno si accorgerebbe della differenza.
Il concerto termina tra gli applausi, mi guardo attorno e facendo un giro sul prato, incontro persone di ogni età, mentre le casse allietano la pausa con la musica di Ac/dc, Twisted Sister, Megadeth e molti altri. Attempati quarantenni che con la loro eddie t-shirt, si confondono con motorcycles dalle lunghe basette. Molti sono i tatuaggi messi in mostra. Tra gli adolescenti, come del resto era anche vent’anni fa, le maglie dei Maiden sono quelle più quotate, poche sono le icone di band estreme come Cannibal Corpse, Obyturay o Napalm Death, i cui fan spesso considerano questi eventi troppo lontani dai loro canoni di gusto.
Non ci si può distrarre però, perché il grande finale sta per avere inizio.
Un’ovazione scuote l’Olimpico quando da dietro la batteria viene calato un enorme telo con l’effige dell’ultimo disco dei Motorhead “Kiss of death”, in cui tradizionalmente capeggia lo Snaggletooth, l’ormai riconoscibile logo apparso per la prima volta a metà anni settanta, grazie ad un’intuizione grafica di Mr Kilmister. Il sole è ancora alto in cielo, quando Lemmy e soci escono allo scoperto. Due mega schermi laterali permettono di godere anche di gustosi primi piani. Sembra incredibile ma Lemmy dopo 32 anni di concerti è ancora li, con i suoi tuonati 62 anni a suonare il basso e ad allietare con al sua magnifica ed inconfondibile voce greve e granitica migliaia di fan. Come sembra inverosimile che a creare un mostruoso suono rock’n’roll, come lo definiscono loro stessi, siano solo tre strumenti: lo splendido basso Rickenbacker intarsiato nel legno di Lemmy, i riff della chitarra di Phil Campbell e la batteria di Mikkey Dee entrato tra gli ex Bastards solo nel 1992.
Senza dubbio, sono proprio le pelli l’arma in più della band, la grinta e la tecnica mostrata da Dee sono la vera l’anima dei Motorhead, insostituibile, proprio come l’unicità vocale del frontman.
Il concerto trascina e coinvolge tra reminiscenze speed & heavy, attraverso impressionanti riff e un groove d’impatto sonoro, con pochi inutili fronzoli. Il live set viene battezzato da “Snaggletooth” e “Stay Clean”, capaci sin da subito di scaldare gli animi. I massicci riff di “Metropilis” si amalgamano alla perfezione con la tenebrosa “In the name of tragedy” e “Killers” entrambe estratte da “Inferno”.
Passano in rassegna molti brani del passato, ma l’accento non si può che soffermare su “Sacrifice”, title track dell’album del 1995, caratterizzata da l’ormai classica enclave sonora di Mikkey Dee, che sfoggia un maestoso assolo di batteria, riescendo così ad infiammare un pubblico sotto tono, più volte stimolato da Campbell e Kilmister. Il live volge alla fine con “Ace of spades”, al tempo usata anche come colonna sonora di alcuni video giochi e addirittura per alcuni spot pubblicitari. La track list si chiude con la leggendaria “Overkill”, che con i suo 28 anni viene senza dubbio considerata oggi una tra la migliori gemme del gruppo, con il suo ritmo incalzante e il sapiente uso della doppia cassa che rende la sua già virulenta sonorità, realmente sconvolgente.
Ed ora, ladies and gentleman, gli headliner di questa giornata gli Iron Maiden.
Come da copione la band si fa attendere, le luci del crepuscolo vanno a morire dietro la tribuna in fermento, mi volto e una curiosa maglietta riporta una storica frase di Steve Harris, che può senza dubbio essere considerata manifesto degli early years:
“ Io penso che fosse una parte da recitare, per il fatto che il nostro cantante di allora Pual di Anno aveva i capelli lunghi e suonavamo in maniera sfrenata. Risultavamo molto aggressivi. Ma quella non è mai stata una cosa punk. Quella era una cosa puramente metal. Noi facevamo morire di paura i punks”.
Finisco di leggere la frase e le luci si spengono, molte tra le persone accalcate nelle gradinate sciamano verso il prato. L’adrenalina è alta anche se la stanchezza inizia a farsi sentire. Le luci tiepide iniziano a scoprire il palco dominato ovviamente dal leit motiv di “A matter of life and death”.
Due enormi muri rimandano ad una scenografia da film di guerra, con filo spinato e sacchi di sabbia, come in una sorta di moderna trincea. Ci si rende subito conto che la scaletta che i Maiden andranno a fare sarà al medesima presentata allo sfortunato Heineken Jammin festival di Mestre. Le danze iniziano tra le nuove note tratte dal quattordicesimo album da studio, che di certo non ha fatto felice i fan della prima ora, ma a differenza di “Virtual XI” e “Dance of death” riesce a non sorprendere negativamente.
Oggi dobbiamo fare i conti con la voglia di raccontare della band e talvolta con gli eccessivi tecnicismi, che offrono di certo spunti sonori di qualità, che tendono però a far cadere nell’oblio il lato genuino che si ritrova ormai solo nelle performance live. Esempio pratico della nuova verbosità narrativa sono le track di apertura “Different world” tra le più convicenti del nuovo disco, “These colors don’t run” sulla quale il buon Bruce stecca per ben due volte, e l’oceanica “Brighter than a thousand suns” nella quale la triade Murray-Gers-Smith inizia a far sentire la propria autorevolezza.
Dickinson, più posato di qualche anno addietro, viaggia sul palco, quasi sotto tono, mentre l’immenso Harris sembra quel ragazzino che accompagnava Di Anno in giro per i palcoscenici dell’UK. Il concerto inizia a decollare con “Wrathchild” e “The Tropper” durante la quale the Raid air Siren entra in scena vestito da combattente inglese, brandendo la bandiera dell’Inghilterra, emulando Eddie apparso sullo sfondo di un enorme telo che accompagna i suoni con diverse raffigurazioni. Ma…c’è un ma, la scenografia, pur essendo di grande impatto, si avvale di rifacimenti grafici delle magnifiche cover dei primi anni, infatti, a ben osservare i disegni, non rispecchiano assolutamente nè la fedeltà dei dettagli e neppure lo stile grafico tristemente cambiato e nettamente peggiorato da “No prayer for dying”.
Si torna al presente con il singolo “The reincarnation of Benjamin Breeg”, raccontata da Bruce, appollaiato sopra le mura di scenografia, mentre una luce blu accompagna l’atmosfera narrativa ricercata dalla band, sino all’ esplodere di un sound NWOBHM, che non riesce però a trainare i presenti come la storica “The number of the beast”, che da il via ad un pogo generale che coinvolge anche le ali più tranquille della folla. Da dietro la batteria di Nicko McBrain, appare un grosso diavolo meccanico avvolto dalla nebbia. I suoi occhi mefistofelici si volgono verso il pubblico, mentre Bruce “…cammina da solo nella notte scura..”. Come nel più classico dei climax, il live raggiunge il suo apice con “Fear of the dark”, classicamente intonata dal pubblico presente, emotivamente coinvolto di li a poco da una delle più belle perle della discografia della vergine di ferro:”Run to the hills”. Il live si chiude con l’inno indiscusso “Iron Maiden”, che Dickinson rende coinvolgente e incantevole senza però riuscire a raggiungere l’unicità che le veniva data dalla voce di Paul Di Anno.
Il bis di rito è apprezzabilmente estratto dal passato con “2 minutes to midnight”, accompagnata da un Eddie di 4 metri che scorazza per il palcoscenico, dopo essere apparso alla guida di un enorme carro armato emerso da dietro le quinte. Il concerto (ahimè) termina con “Hallowed be thy name” durante la quale Gers si prodiga nei suoi soliti show da rocker.
La kermesse si chiude, e mentre Harris mette in bella mostra il suo basso effigiato dal logo del West Ham United, Nicko, scalzo come di consueto lancia ai fans bacchette e polsini. La festa ha termine qui, ma il sorriso non riesce ad andare via, vista la promessa della band di tornare nel 2008 con storici brani estratti da “Powerslave”, “Somewhere in time” e “Seventh son”.
Non dobbiamo far altro che attendere fiduciosi.