Il Lungo Addio “Fuori Stagione”, recensione
Mi fa strano, molto strano, dove raccontare un disco de Il lungo addio racchiuso in un classico packaging.
Per la prima volta, infatti, Fabrizio Testa esce allo scoperto, abbandonando le delizie vintage che hanno caratterizzato i precedenti sei album autoprodotti per schiudersi nella sinergia (voluta e trovata) Old bicycle Records-Piadina Records-Wallace Records.
La nuova fatica, infatti, sembra avere il corpo di un prodotto esteticamente divergente, ma l’anima di immagini reali che si concretizzano come visionario fil rouge rispetto al recente passato. Spiagge desolate ed desolanti, un individuo perso nella vacuità di costruzioni soffocanti ed impattanti quanto gli alimenti che mantengono in vita un songwriting acido e profondo.
Il progetto romagnolo di Testa, pur spogliato delle sue maschere, mantiene coerenza ed animosità descrittiva, un verismo cinico e disincantato che rimane aggrappato alla quotidianità, proprio come nell’immagine che domina la copertina.
È il vento di un mare d’inverno a ricreare l’ambiente delicatamente retrò, in cui gli spazi sixties formulano il pattern espressivo di una narrazione cupa ed ombrosa, raccontata da brevità ideale che, come di consueto, caratterizza le opere del Il lungo addio, qui coadiuvato dalla tromba di Mirio Cosottini e dal drum set di Bruno Dorella. Il mondo neorealista, che continua a vivere sulla deformazione dei clichè di una Romagna uguale a se stessa da decenni (Tedesca), porta verso un ascolto esplicito pronto ad ergersi sul beat sintetico di Fuori stagione e sulle strutture sonore di Dancig in cui appare Xabier Iriondo alla sei corde. Un piccolo viaggio solo apparentemente semplice e diretto, che gioca con le memorie di In tre su una uno, in cui la voce di Dany Greggio dona un’ulteriore anima non convenzionale.
A chiudere le follie espressive di Fabrizio Testa sono infine le durate grind di Residence, minimale esplorazione emotiva su Marco Pantani, e Dentro al blu, composizione graffiata da solchi vinilici che accompagnano l’ascoltatore nella desolazione mitigata di una sonorità comunque accogliente.
Insomma, note di un cantautorato scomodo e a tratti tenebroso, al servizio di otto tracce che trovano maturità e convinzione attraverso quello che potrei definire la miglior opera del Il lungo addio.