Hot cakes – The Darkness – recensione cd
La musica a volte sembra un po’ come una “macchina del tempo”.
Mi spiego meglio: ci sono dischi che guardano al futuro e che, grazie alla visione di coloro che li concepirono e realizzarono, possono considerarsi a tutti gli effetti “ante litteram”, con riferimento alla capacità di anticipare stili o mode che in realtà si confermeranno soltanto dopo qualche anno. Ne esistono altri invece basati sul processo inverso, rivolti cioè decisamente al passato, che propongono un sound già piacevolmente apprezzato da un’intera generazione.
Se la prima operazione a volte ha dato vita ad iniziali flop sperimentali – magari rivalutati ed apprezzati solo “col senno di poi” – la seconda (quella scelta chiaramente dai “The Darkness”, sin dal vezzo di quell’articolo prima del nome) è caratterizzata piuttosto dalla possibilità di cadere nella parodia, o nel falso d’autore, con tutte le conseguenze negative del caso.
Ebbene nel 2003 la band inglese ha deciso di correre quest’ultimo rischio con il loro fortunato “Permission to land”, caratterizzato dall’evidente tentativo di ricreare in sala di incisione (e poi dal vivo) l’atmosfera ed il suono delle migliori rock band degli anni ‘70. Il richiamo principale a mio avviso è ai Queen di Freddie Mercury al quale il frontman Justin Hawkins si è ispirato sia per l’approccio vocale, fatto di acuti e falsetti retrò, sia per la presenza scenica, tutta basata sul fisico e le continue allusioni pseudo sessuali. Quanto alla musica poi, ognuno potrà trovare, in questo o quel pezzo, un riferimento allo stile di decine di gruppi hard e glam rock della stessa epoca e, come sempre, il giudizio sul risultato finale resta soggettivo.
Personalmente sono fra quelli che ritengono vinta, in generale, la sfida lanciata dai Darkness ed in particolare proprio con questo terzo LP (tanto per usare un termine vintage) “Hot cakes” che risulta forse più maturo e solido del già citato disco di esordio e nettamente migliore del deludente “One way ticket to hell…and back” del 2005.
Quello che colpisce favorevolmente, dopo averlo ascoltato tutto d’un fiato per più e più volte, è l’elevata qualità dei pezzi, tutti melodici e infarciti di radiofoniche schitarrate elettriche. Si comincia subito con i riferimenti erotici (il tema, ricorrente, è in piena sintonia con la splendida copertina, volutamente trash) di “Every inch of you” per poi passare alla cavalcata di “With a woman” il cui intro sembra uscito dal “laboratorio” di Angus Young & C.
“Street spirit” ha nei suoi riff invece un piglio addirittura heavy metal che, pur col timore di una scomunica da parte dei metallari d.o.c., accosterei niente meno che agli Iron Maiden o al primo Ozzy Osbourne.
La prima perla del disco, che sembra una b-side delle session di “A day at the races” o “A night at the opera” (prendete il coro del refrain e dite se non vi sembra di sentire perfino l’eco della voce di Bryan May) è senza dubbio “Everybody have a good time”. La seconda è “Keep me hangin’ on” che sorprendentemente ricorda nientemeno canzoni rock “out of target” come “Life in a fastlane” o “Heartache tonight” degli Eagles. Lo spirito guascone e il mood certamente coerente con i rispettivi riferimenti citati risultano convincenti, ma soprattutto invitano fortemente al riascolto, e questo ci sembra già un successo.
Come da tradizione ci sono qua e là anche delle ottime power ballads che tanto contribuirono al fascino ed al successo (anche commerciale) del genere hard rock. Per dovere di sintesi mi limito a segnalare i titoli: “Living each day blind” e la conclusiva “Love is not the answer” (con la quale scaramanticamente i “rappresentanti dell’oscurità” sperano forse di ottenere le stesse fortune della loro “Love is only a feeling”).
Chiudo ribadendo che questi pezzi (e io evidentemente scommetto in tal senso) potrebbero godere di una eredità simile a quella delle “vecchie zie” alle quali spudoratamente si ispirano, durando quindi nel tempo, ma mi auguro che chi è intenzionato ad ascoltarle lo faccia senza pregiudizi sul gruppo e la sua immagine, un po’ tamarra, giudicandole il più oggettivamente possibile.