High Hopes – Bruce Springsteen – Recensione CD
High Hopes / Bruce Springsteen
Sono passati solo due anni dall’uscita di Wrecking ball e già ci ritroviamo fra le mani un nuovo album del Boss. Che, da The Rising in poi, il nostro stia attraversando uno di quei fortunati momenti di “urgenza comunicativa” che ogni tanto capitano nella vita, direi che è ormai un dato oggettivo, vista la prodigalità nel pubblicare materiale totalmente o parzialmente inedito.
In questo caso si tratta di canzoni non tutte nuove, tanto che molti cosiddetti esperti hanno arricciato un po’ il naso, considerando la pubblicazione di “High hopes” più un’esigenza commerciale, magari sotto pressione della sua potente label, che non il frutto di una vera ed intima necessità artistica. Personalmente sono del partito di quelli che non ritiene Springsteen un tipo facilmente condizionabile su certe questioni così importanti e, piuttosto, sposo la teoria assai più verosimile che questo sia semplicemente una sorta di “instant record”.
Sì, proprio come nel mondo dell’editoria esiste l’esigenza di raccontare con dei libri la realtà “adesso e subito”, anche nella Musica con la M maiuscola vi è la medesima ispirazione di voler descrivere quello che sta accadendo e di farlo sapere alla gente, senza esitazione, a prescindere da altri tipi di calcolo. Prendiamo ad esempio proprio la title track, una delle tre cover dell’album, direi che appare piuttosto chiaro come la scelta del pezzo sia dipesa dal suo forte messaggio di lotta alla dominante disperazione che sta attanagliando milioni di persone nel mondo a causa di una crisi economica senza precedenti. In uno dei suoi versi, infatti, l’urlo della povertà e della desolazione è così forte e chiaro che sembra proprio che quelle parole le abbia scritte di suo pugno (il pezzo è di Tim Scott McConnell):
“And every mother with a baby crying in her arms, singing give me help, give me strength, give a soul a night of fearless sleep, give me love, give me peace, don’t you know these days you pay for everything”.
Non è neanche casuale, a mio avviso, la scelta del Boss di riportare alla luce, fra i suoi tanti cavalli di battaglia, proprio uno fra quelli che più incisivamente descrivono le difficoltà dell’uomo di fronte all’assenza di lavoro e di denaro per una sopravvivenza dignitosa, come “The ghost of Tom Joad” (“Families sleepin’ in their cars in the southwest, no home, no job, no peace, no rest”). Anche musicalmente viene presentata con una forza espressiva decisamente più potente dell’originale (anche a discapito della sua estetica minimalista, forse insuperabile), lasciando a Tom Morello, che suona la chitarra in quasi tutto il disco, spazio per dilatarla con le sue sferzate rock, affilate come coltelli.
Poi, dopo la denuncia, come già accaduto con “Wrecking ball” (pezzo che incitava a dare il meglio di sé sul terreno di gioco della vita, quando il match si fa duro) arriva con “Heaven’s wall” il religioso messaggio di speranza, che non può mai mancare in un suo album. Le parole escono direttamente dalla bocca di quella Samaritana che, dopo un profondo colloquio con Gesù, corse in città ad avvisare tutti che la salvezza era finalmente arrivata per guarire tutti (“Come on sons of Saul, come on sons of Abraham waiting outside heaven’s wall…..Raise your hand….and toghether we’ll walk into Canaan land…..).
Dal cassetto Springsteen trova anche il tempo per tirare fuori la spensierata storia di tutti i giorni di “Frankie fell in love”, ricordandoci che dopo tutto in questa vita non potranno toglierci la gioia di innamorarsi. Nell’eterna dicotomia fra la ragione (interpretata da Albert Einstein) e la passione (William Shakespeare), in amore è sempre quest’ultima a vincere, tant’è che lo scrittore dice allo scienziato, tutto intento a buttar giù i suoi freddi calcoli matematici: “Man it all starts with a kiss….it’s just one and one make three, that’s why it’s poetry”. Geniale.
Dulcis in fundo, Bruce ci lascia ancora due sue chicche che possiamo considerare già futuri classici, come la malinconica visita al muro dei reduci di un familiare di un Marine caduto in Vietnam (“The wall”) e la cullante ballata dolce amara “Hunter of invisible game” (“Now there’s a kingdom of love waiting to be reclaimed”), ancora una volta all’insegna della speranza.
Chiudo dicendo che “High Hopes”, pur avendo un DNA diverso dai suoi precedenti dischi, verrà forse ricordato come un album “di passaggio”, ma quando Springsteen “passa” difficilmente si scorda di lasciare il segno e, anche sta volta, fortunatamente, è rimasto fedele a sé stesso e alla sua storia artistica, lasciandoci un pugno di canzoni che riascolteremo ancora a lungo in questi giorni difficili che ancora viviamo.
(Si ringrazia vivamente Graziana, amica siciliana di FB, per le sue dritte e le sue “consulenze”, da esperta fan di Bruce)