Herbie Hancock – River The Joni Letters
Forse questo cd vuole essere una risposta alle tante “lettere” che Joni ha mandato durante la sua lunga carriera al mondo del Jazz, ricordiamoci opere come Court and spark, Hejra, Mingus che, con risultati alterni, sono state.fondamentalmente ispirate dalla musica afroamericana.
La risposta non poteva essere delle più cerimoniose che lo star music system le poteva concedere, tanto che questo lavoro, un po’ a sorpresa, è riuscito a conseguire il Grammy Award per il miglior album 2008, ed arriva quando la cantante canadese sta riproponendosi dopo un periodo di forte polemica con l’industria discografica e dei media sfociato in dichiarazioni di abbandono della carriera musicale per dedicarsi completamente alla pittura, suo precoce interesse; dichiarazioni tuttavia ormai superate dall’uscita di ulteriori lavori discografici.
Maestro di cerimonia è Herbie Hancock, ormai specializzato in lavori di consacrazione come il recente Gershwin’s World, progetto con il quale il pianista aveva coinvolto grandi nomi della “Hollywood musicale” e al quale aveva partecipato anche la stessa Joni Mitchell.
Questa volta però l’impianto è riservato ad un quintetto comprendente oltre ad Hancock, i suoi scudieri di sempre Dave Holland e Wayne Shorter. con una sfilata di prestigiose ospiti ed una voce recitante.
Possiamo dire che il risultato è alterno, proprio perché alla base c’è un indeterminatezza del genere musicale di riferimento: non può essere definito un “tribute” poiché è troppo debole il contributo di ciascun ospite all’arrangiamento dei brani, né d’altra parte possiamo inserirlo nella discografia jazz: i musicisti non si concedono molto all’elaborazione dei temi di Joni, forse solo Shorter tenta pallidamente di esprimersi senza paludamenti, ma resta imprigionato nelle maglie del pianismo di Hancock che riporta un po‘ tutto alla “confezione”extra-lusso dei brani.
Le voci che più riescono a incidere sono quelle di Norah Jones, vellutata ed espressiva, e quella nerissima di Tina Turner, stupefacente la scioltezza e la chiarezza del suo canto (con tutto il rispetto: alla sua età!), le loro interpretazioni sono decisamente suggestive.
Corinne Bailey Rae e Luciana Sousa non riescono a farci dimenticare le versioni originali e purtroppo anche la Mitchell non riesce a illuminare la maturità del suo grande stile.
Leonard Cohen si limita a “recitare” il testo di Jungle Line tornando alla sua vocazione di poeta, si può dire che ascoltarlo è sempre un emozione, ma lo preferiamo come songwriter.
I brani strumentali sono ottimamente costruiti, ma soprattutto Nefertiti ci fa rimpiangere il fresco venticello sovversivo dell’epopea di Davis.
A proposito di tributi, vi ricordate cosa fece Miles con Time After Time?