Guns n’ Roses – Appetite For Destruction (1987)
La storia del rock è pieno di album che pur avendo oggettivamente lasciato il segno, nel bene o nel male, dividono la così detta critica riguardo all’effettiva qualità degli artisti che li hanno incisi o delle canzoni che ne fanno parte.
Uno di questi è senza dubbio “Appetite for destruction” il disco di esordio di quella band sgangherata, così piena di contraddizioni e talento, che erano (e in parte ancora sono) i Guns n’ Roses. L’immaginario collettivo è certamente concentrato sulle due anime forti della line up, vale a dire il narcisista ed egocentrico cantante Axl Rose –proveniente da diverse esperienze con altri gruppi hard rock – e l’estroso chitarrista Slash, che in realtà entrò nella band solo dopo esser stato, di fatto, scartato dai Poison. Tuttavia, per l’economia generale dell’album, soprattutto a livello compositivo, fu molto determinante l’apporto del secondo chitarrista Izzy Stradlin.
Il loro stile è un misto di sudore, rabbia e furbizia, a metà fra gli Ac/Dc e gli Aerosmith ma spesso con un retrogusto punk che ha sempre fatto la differenza, sia musicalmente che per i testi che parlano senza filtri o inibizioni di droga, donne e tutto il repertorio idoneo a smuovere la parte più selvaggia del cervello e della pancia degli ascoltatori. E questo pubblico, anche se non immediatamente (ci volle un anno intero perché venisse apprezzato anche in Europa), se ne innamorò alla follia, tanto da finire per riempire gli stadi pur di vederli suonare dal vivo. D’altra parte un album che ruggisce sin dal primo pezzo, con l’urlo di “Welcome to the jungle”, accompagnato da un video più che indovinato, non sarebbe mai potuto passare inosservato troppo a lungo.
La sezione ritmica con il bassista Duff McKagan e Steven Adler alla batteria fornisce ai pezzi tutta la potenza necessaria per spaccare il mondo, come quando i tamburi incalzanti guidano ad alta velocità i vagoni della scatenata “Night Train”, con la voce di Axl che raggiunge acuti allucinanti.
L’originale intro e la melodia quasi sincopata hanno fatto la fortuna di un brano che personalmente adoro come “Mr. Brownstone”, con un fantastico assolo di Slash che fece subito capire di che pasta era fatto ma soprattutto cosa si erano lasciati scappare dalle mani Bret Michaels e soci.
Ma in realtà la maggior parte della gente non resisterà mai alla carica di “Paradise City” che inizia a scatenarsi in un vortice elettrico incontenibile, subito dopo il suono di un fischietto che fa da spartiacque da un intro che definirei, ormai, leggendario. La sferragliata finale poi, a ritmi frenetici, è semplicemente memorabile. In tutto questo i Guns non dimenticarono che perfino le radio che passano il rock più duro, hanno sempre bisogno di ballate e di riff che possano restare nella testa e così Appetite contiene quel sublime episodio che è “Sweet child of mine”, che li consacrò anche come veri e proprio hit maker.
Le più irriverenti “My Michelle” e “You’re crazy” sventolano la bandiera punk della band, alla quale prima facevo accenno, mentre l’arrembante chiusura di “Rocket queen” incornicia questo album irripetibile con le due chitarre di Stradlin e Slash che creano un suono quasi ipnotico, accompagnate dall’ansimare tutt’altro che equivoco di una giovane donna.
Tanto per farla breve, non credo che esista qualche lettore di questa rivista che non abbia mai ascoltato un disco pazzesco come questo, ma qualora ce ne fossero, beh non potrei far altro che ricordargli che non è mai troppo tardi per farsi trascinare in un’ora (scarsa) di “controllata follia” rock. Non potete non averlo, senza se e senza ma.
PS: chiedo scusa per il passaggio “personale” ma non posso proprio fare a meno di dedicare questa mia recensione ad un amico, Maurizio, che me lo fece ascoltare per la prima volta quasi 30 anni fa “in quel di Bruxelles…”